19. Combattente

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Amavo mio padre.

Quando ero bambina, lo ammiravo con gli occhi colmi di ammirazione, sperando di poter trovare un giorno un uomo come lui, che mi proteggesse, mi amasse e mi rendesse una donna felice.

Ed ero cresciuta con quel pensiero, con quell'ottica dell'uomo perfetto, incapace di ferire o spezzare il cuore di una donna. Forse era quello il motivo per cui mi ero fidata di Colton quella sera, perché avevo stupidamente creduto che lui non fosse come la gente credeva. Forse avevo sul serio pensato che un passaggio innocente avesse potuto aiutarmi a smontare tutte le loro teorie, inconsapevole che invece mi avrebbe dato delle conferme ben peggiori.

Non sapevo cosa mi avesse spinto a dirgli di portarmi a casa, ma mi resi conto che era tutto molto ironico. Gli avevo chiesto di portarmi al sicuro, in quel rifugio che era stata la mia abitazione per quattro anni. Ma lui mi aveva strappato anche quello. Quel posto dove avrei potuto sentirmi difesa dalle minacce, mi era stato tolto via con forza.

Doveva portarmi a casa ma mi aveva lasciata una senzatetto.

Ero rientrata molto presto dalla nostra merenda notturna da Tony. Non mi aspettavo che, una volta tornata, avrei trovato mio padre seduto sulla poltrona del salotto, impegnato nella visione dei soliti show notturni dove le più grandi star americane presenziavano e tenevano compagnia agli spettatori.

Non era solitamente un tipo notturno, mio padre. Adorava addormentarsi presto e svegliarsi all'alba, aveva un routine piuttosto ferrea e in tutti quegli anni di matrimonio non l'aveva mai cambiata.

Si alzava alle sei in punto, accendeva i fornelli e preparava la colazione per mia madre. L'aveva sempre fatto, fin da quando erano due sposini privi di figli, e aveva continuato nonostante il nostro arrivo, aggiungendo qualche piatto in più in quella tavola che sembrava via vai farsi più affollata.

Quando gli chiedevi se si fosse pentito di aver messo su una famiglia così numerosa, lui rispondeva spesso e volentieri di no. Amava avere la casa piena di ragazzi, anche se molto spesso ciò implicava il dover sopportare i disaccordi o il baccano che sei figli erano soliti portare. Io ero sempre stata la più tranquilla, quella che si metteva in disparte quando c'erano attriti, che studiava spesso in camera sua e che cercava di dare quanto meno assili poteva ai loro genitori. Per mio padre ero la fotocopia di mia madre, sempre molto pacata e indirizzata verso l'ordine e la pace. Certo, anche io avevo dato modo ai miei genitori di alterarsi, soprattutto nella prima parte della mia adolescenza. Ma per fortuna avevo un padre che mi capiva sempre e che non mi aveva mai giudicata per i miei errori da ragazzina ribelle.

Era uno dei motivi per cui mi sentivo in difetto.

Avevo accettato di andare con il mio carnefice, permettendogli di usurpare la mia serenità. Avrebbe mio padre perdonato anche quel mio fatale errore?

A volte mi chiedevo come avrebbe reagito se avesse saputo che la sua bambina era diventata una donna spaventata da chi, come lui, era considerato il sesso forte. Mi aveva sempre insegnato che non esisteva inferiorità tra uomo o donna, che eravamo tutti uguali e che nessuno avrebbe potuto decretare chi fosse più forte di chi.

Era contro la mascolinità tossica, il maschilismo, il patriarcato. Amava e rispettava la donna nella sua interezza, senza farsi sfiorare dall'idea di sentirsi superiore a lei.

Ecco perché, nella mia famiglia, le personalità femminili potevano definirsi forti. Perché era lui stesso ad averci insegnato che non avevamo niente in meno da un uomo.

Però a volte gli uomini facevano paura, tiravano fuori la loro virilità e ci sovrastavano con una forza fisica maggiore alla nostra. E per un solo istante dimenticavo di quanto coraggio possedessi, facevo semplicemente un passo indietro e mi ricordavo di essere donna, anche se poi mi ricordavo che quello non era un motivo valido per abbassare il capo. Lo rimettevo su e lottavo con audacia. Non dovevo rimanere zitta solo perché agli occhi della società ero il sesso debole.

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