Odiavo l'apatia.
Quel profondo senso di nulla, quella sensazione di vuoto totale che prendeva lo stomaco e il cuore, facendoti sentire una macchina senza alcun sentimento. Odiavo quella certezza di sapere che nessuna emozione mi scompigliava lo stomaco, che nemmeno l'ombra di un sorriso o di una lacrima compariva sul mio viso stanco.
Ero apatica, ero fredda, ero dannatamente insensibile.
Era passata più di una settimana da quel litigio con Riley, eppure, era come se niente tra noi fosse accaduto. Io fingevo che non esistesse, lui ricambiava la mia cortesia allo stesso modo. Era come se ventitré anni di vita non li avessimo condivisi affatto, ci era difficile anche parlare sulle condizioni di nostro figlio.
Due sconosciuti, ecco cosa eravamo diventati.
La cosa che mi stupiva era il fatto che non mi facesse più male, come se mi fossi abituata alla sua assenza nella mia vita, come se fosse normale il fatto che lui non ci fosse.
Come se quei ventitré anni non fossero mai esistiti.
A volte basta poco per legarsi a qualcuno, ma serve molto meno per distruggere ogni contatto. Era una cosa che mi diceva spesso mia madre, quando da adolescente mi ritrovavo a piangere tra le sue braccia per un amore finito. Mi diceva che piangere faceva bene, che era un modo per sentire meno il peso del macigno che schiacciava i polmoni.
E Dio solo sa quanto diamine desiderassi di piangere in quel periodo.
Ma non riuscivo. Ero perfino incapace di sputare fuori il mio stesso veleno.
Mi accorsi che qualcosa stava definitivamente cambiando quel pomeriggio di metà dicembre. Ero in sala comune con i ragazzi, poi loro se ne erano andati con delle finte scuse per fare in modo che io e Riley trovassimo l'occasione di chiarire. Invece, quello che avevano ottenuto era solo un misero silenzio. Solitamente, una situazione del genere avrebbe portato del disagio puro, ma non riuscivo nemmeno a percepire quel profondo imbarazzo scaturito dal non sapere cosa dirsi.
Eravamo semplicemente muti.
Lui in un divano, io in un altro.
Qualche volta i miei occhi si erano spostati sul suo viso, ma ritornavano a fissare il vuoto quando si accorgevano di non essere ricambiati. Riley torturava il suo ciuffo con le dita, ogni tanto sbuffava, poi ritornava con lo sguardo sul suo telefono.
Avrei voluto dirgli che quel silenzio era solo la prova di come avessimo fallito, ma non ne avevo neanche la forza. Come aveva detto lui qualche settimana prima, eravamo vittime e perdenti del nostro stesso gioco, pedine mosse solo dalla nostra immatura mente.
Una partita di scacchi giocata da chi non aveva mai capito nulla sul gioco. Niente Re e Regine, Alfieri o Cavalli... solo due stupidi ragazzi che giocavano a fare gli adulti e si davano lo scacco matto da soli.
Tutto aveva una conseguenza, tutto accadeva per una ragione e la nostra finta esperienza sull'amore era stata la causa dei frutti marci che eravamo costretti a raccogliere. Una storia che era tragica ma divertente allo stesso tempo, perché mostrava come a volte credersi esperti era lo stesso motivo per cui si affondava.
Non era affatto vero che ero solo io quella sbagliata, come lo stesso non si poteva affermare su Riley. Avevamo il cinquanta per cento delle colpe e ammetterlo ci faceva tanto male da costringerci a puntarci il dito contro a vicenda. Un'inutile guerra che ci eravamo creati noi stessi, solo per il gusto di non sentire il peso del fallimento.
Di certo saremmo stati i genitori perfetti per quella creatura.
Io gli avrei insegnato a fuggire di fronte alle bellezze della vita, lui ad apprezzarle talmente tanto da affogarci dentro.
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Heartbeats
RomanceLa vita di Jasmine Olsen è perfetta. Una famiglia numerosa, un college di prestigio e un migliore amico a cui raccontare tutte le sue disavventure. Riley Jones è la sua spalla. Conosce tutto di lei, la comprende, la stima e la sostiene nei momenti d...