25. Io so amare

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Alla fine, Riley aveva deciso di accompagnarmi da Colton. Non che la cosa lo entusiasmasse molto, in realtà. Trovava questa mia idea totalmente inutile e priva di un senso compiuto, soprattutto perché temeva un mio crollo mentale dopo un faccia a faccia con lui. Erano appena scoccate le cinque del pomeriggio quando ci eravamo messi in viaggio per il noto ospedale di Los Angeles. Il Dignity Health era uno degli ospedali meglio forniti della California. Io e Riley lo conoscevamo abbastanza bene, essendo che non solo era stato il nostro luogo di nascita, ma anche un ritrovo a cadenza regolare per le tante ferite che ci facevamo durante le nostre sessioni di gioco nei boschi. Era da un bel po' di anni che non ci mettevo piede e, di certo, l'idea di entrarci per guardare in faccia il mio carnefice mi sembrava una mossa non molto astuta.

Ma dovevo farlo.

Se c'era una cosa che avevo imparato proprio da Colton, era che nella vita niente ti era dovuto. Qualsiasi cosa tu volessi avere dovevi prendertela con le tue stesse mani, a costo di rimetterci qualcosa in cambio.

Ed era, più o meno, quello che volevo fare con lui.

Scendere, di nuovo, a patti.

L'unica differenza? Quella volta sapevo benissimo quale giocatore avevo davanti e avrei preso in contropiede le sue mosse prime ancora che potesse metterle in atto.

Giocavo il suo gioco sporco e malsano? Sì, assolutamente.

Mi sarei di nuovo scavata la fossa con le mie mani? No, col cazzo.

Riley credeva che io fossi diventata matta. Non capiva perché volessi guardarlo in faccia dopo quello che mi aveva fatto, né perché insistessi per vederlo. Avevo messo all'oscuro anche lui del mio piano, perché sarebbe stato un effetto sorpresa per tutti. Era finito il tempo in cui Jasmine pagava per lo schifo degli altri, avrei dimostrato quanto forte potevo essere anche senza il bisogno di un uomo pronto a difendermi.

Inoltre, il fatto che fossi ancora nervosa per la discussione con il preside aveva contribuito a far calare il silenzio totale in quella macchina. Io non parlavo per la rabbia, lui semplicemente perché si lasciava trasportare dai miei pensieri negativi. Era però piuttosto infastidito dal traffico e i suoi continui sbuffi confermavano il mio pensiero.

Per il resto, nemmeno una sola sillaba era uscita dalle nostre bocche. Almeno, fino a quel momento.

«Si può sapere che ti ho fatto?» Riley sbottò, voltandosi di scatto nella mia direzione e alzando le sopracciglia in segno di fastidio.

Lo guardai confusa, per poi trattenere una risata. Succedeva sempre. Riley odiava con tutto sé stesso il silenzio, molto spesso quando era da solo alzava la musica per sentirne meno il peso. «Io non ho nulla, Ril. Non farti i complessi da primadonna melodrammatica.» risposi, accendendo una sigaretta e abbassando il finestrino. Dannata California, il caldo andava e veniva quando gli faceva comodo.

Fece uno sbuffo scocciato, per poi battere nervoso l'indice sullo sterzo. Eravamo bloccati nel traffico da più di dieci minuti. «Senti, ti conosco da ventidue anni e l'unica volta in cui sei rimasta in silenzio con me era quando ti era morto il gatto.» mormorò scocciato.

«E mi giudichi anche? Tu e mio padre me l'avete tenuto nascosto per non farmi stare male! Era ovvio che ce l'avessi con te.» replicai, tirando una boccata di fumo. «In ogni caso, non sono arrabbiata. Sono solo... stanca, ecco. E molto stressata.» spiegai, appoggiando i piedi sul cruscotto. Li misi subito giù quando notai lo sguardo di rimprovero di Riley, segno che il mio gesto non era gradito.

«Hai visto il preside, questa mattina. O almeno, Josh mi ha detto così. È andata bene?» mi domandò, avanzando di poco in mezzo al grande ingorgo.

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