13. Soave cibo mi è il pianto e l'ardore

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«Vittoria» la giovane Costanza bussò alla porta della sua camera con un'espressione preoccupata sul volto, stette qualche attimo in piedi e, dato che non udiva risposta, si avvicinò. I singhiozzi erano chiaramente udibili e la ragazza non poté ignorarli.

«Vittoria, ti prego apri» non ci fu risposta neanche questa volta, ma Costanza non si arrese, il pianto aveva smesso: la cugina l'aveva udita, doveva perseverare se desiderava ottenere risultati, «Sai una cosa Vittoria? Da qualche giorno è arrivato un uomo, è un letterato coltissimo, un poeta e uno scrittore, ieri sera madonna Costanza gli ha chiesto se poteva narrarci un po' di ciò che aveva visto durante la sua permanenza a Roma, ma lui era molto stanco e la duchessa, mia zia, ha deciso di rimandare tutto ad oggi.»

Vittoria stette ancora in silenzio. Si tirò su dal letto su cui era sdraiata a piangere come ormai faceva costantemente ogni giorno e ogni notte, si sentiva completamente distrutta, moralmente e fisicamente. Non aveva più forze e durò un'immensa fatica a mettersi in piedi. Le gambe le tremavano, il suo corpo era percorso da brividi. Si avvicinò tremante allo specchio: quello che vide la lasciò senza fiato, ributtandola in un'ancora più nera disperazione. Non sembrava più lei: la notizia della prigionia di Ferdinando l'aveva completamente trasformata e lei non era stata in grado di resistere. Non era questa la forza che si era imposta di mostrare, aveva ceduto subito, dal primo momento, non era stata in grado di mantenere le promesse che si era fatta a se stessa e questo era un male che andava inevitabilmente ad aggiungersi a tutti gli altri. Gli occhi erano rossi e gonfi, le sue guance, solitamente rosee e arrossate, sembravano aver perso ogni colore, la pelle era bianca come quella dei cadaveri, sembrava che sotto di essa non scorresse più vita. Era una rosa disfatta, un fiore appassito, schiacciato da un inverno troppo freddo.

«Non ti piacerebbe sederti con noi, tra poco, e ascoltare quello che ha da raccontare?» continuò Costanza dall'altra parte della porta con un tono vivace e allegro che aveva lo scopo di stimolare Vittoria, almeno ad una risposta, «Roma è la tua patria, cara, non ti farebbe piacere?»

La Colonna rimase immobile nella sua posizione, aveva abbassato gli occhi perché non poteva vedersi in quelle condizioni. Fece un grande sospiro, avrebbe dovuto farlo? Roma era veramente la sua casa, le sarebbe stato realmente di conforto sentir parlare del suo paese di origine, dei luoghi che aveva visto da bambina, che le erano rimasti impressi nel cuore e di cui, adesso, a distanza di molti anni, sentiva nostalgia. Per quanto a Ischia avesse passato la maggior parte della sua infanzia, lei era di Roma e a Roma inevitabilmente apparteneva. Era terribilmente indecisa, divisa dalla paura di essere troppo debole, troppo fiacca, vigliacca per tornare a fare la vita che aveva fatto prima di sposarsi e dal desiderio di udire racconti, storie e novità sulla sua città di origine.

Era passato troppo tempo, i suoi pensieri l'avevano isolata dalla realtà e si era dimenticata che, forse, avrebbe dovuto dare una risposta a Costanza, anche solo per gentilezza: la sofferenza non era una scusa per trattare male le persone che l'amavano e cercavano di sostenerla e aiutarla ogni giorno. Non era l'unica, poi, a patire: tutti gli Avalos soffrivano, la sconfitta dell'esercito spagnolo e la prigionia di Ferdinando affliggevano tutti i membri della famiglia, nessuno escluso.

«Sentiti libera di venire quando vuoi, se ne hai desiderio, cara sorella» il tono di Costanza era mutato, adesso era rassegnato e non più speranzoso come prima. Quel "sorella" scaldò il cuore di Vittoria in un modo che la ragazza non avrebbe potuto nemmeno immaginare: era l'appellativo migliore per esprimere tutta la vicinanza di cui la Colonna aveva bisogno. «Noi saremo lì ad ogni modo.»

Vittoria udì i passi di Costanza allontanarsi e cominciò a sentirsi seriamente in colpa per il suo comportamento maleducato. Si sedette di nuovo e notò che adesso non era senza forze come prima, stranamente la sensazione vuotezza l'aveva abbandonata. Nella sua mente aveva fatto capolino Roma con la sua immensa arte e bellezza, si era affacciato il desiderio di sentir parlare di lei e di tutte le sue novità. Roma era sempre stata una città grandiosa, ma, da quando la conosceva lei, aveva perso ogni sfarzo. Certo, tutte le rovine che ornavano le strade e le piazze della città la affascinavano e non poco, ma per tutto il resto Roma era completamente trasandata, lasciata andare anzi proprio smembrata di ogni antico valore. Con Alessandro VI la cosa era peggiorata ancora di più e era dispiaciuto molto a tutti coloro che, come Vittoria, tenevano molto alla grandezza del passato. Ma con Giulio II tutto era cambiato: il nuovo Papa aveva in progetto di rendere Roma la più bella città del mondo, degna del suo antico splendore e del nome di Capitale della Cristianità: aveva chiamato alla sua corte tutti i più grandi artisti perché ornassero di opere d'arte i suoi palazzi e le sue chiese, aveva anche avviato il progetto della costruzione della nuova Basilica di San Pietro ma Vittoria non sapeva molto di più. Ed era proprio per questo che, grazie alle parole di Costanza, era stata invasa da un'improvvisa e assolutamente inattesa voglia di conoscere di più.
Si fece forza, doveva cercare di vivere al meglio possibile questa tremenda attesa di notizie di Ferdinando. Aveva bisogno di svago e lo sapeva, quella era un'occasione che doveva sforzarsi di non perdere.

Uno dio per la sua bocca parlaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora