55. E com'amarvi i' non fu' stolto

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Vittoria lo stava aspettando da molto, troppo tempo. Seduta davanti al suo scrittoio non era riuscita a fare niente mentre lo attendeva, aveva ansia, aveva agitazione, eccitazione, trepidazione per quando si sarebbero finalmente incontrati.

I suoi occhi, per quanto si sforzasse di tenerli puntati sul libretto delle sue poesie che stava sfogliando, quello che aveva fatto per lui, erano spinti, quasi da una forza superiore, a scrutare, ogni tanto, la porta nella speranza di vederla aprirsi, le orecchie, invece, erano sempre attente a recepire un qualsiasi rumore di passi dal corridoio. Non stava più nella pelle e, quando finalmente udì quel tanto agognato suono avvicinarsi sempre di più alla sua stanza, si alzò di scatto, chiuse il piccolo manuale e aprì la porta.

Michelangelo si fermò di colpo, a pochi passi da lei, e i loro occhi si osservarono, si parlarono tenendo serrate le loro bocche. Erano entrambi diversi, forse nessuno si aspettava di vedere l'altro in quel modo, ma la felicità di essere finalmente insieme sorpassava ogni condizione fisica. La malattia di Michelangelo non se ne era andata via senza lasciare segni del suo passaggio, l'artista era chiaramente invecchiato, i suoi capelli erano più per metà colorati di bianco e il suo viso stanco e solcato da nuove rughe. Quella di Vittoria invece non l'aveva lasciata e probabilmente non l'avrebbe mai fatto, sotto gli occhi dello scultore la marchesa, magra e smunta, con il volto e le mani emaciate, sembrava aver perso tutta la sua bellezza. Ma non era quello che interessava loro, non era l'aspetto fisico che aveva importanza: le loro anime, così simili, si erano unite di nuovo e non c'era altro che contasse.

Vittoria, con gli occhi pieni di lacrime, non riuscì a resistere, allargò le braccia e si lasciò cadere nel suo abbraccio. Aveva rischiato di perderlo per sempre, senza neanche vederlo un'ultima volta, aveva bisogno di sentire che la sua presenza fosse vera, che non si stava illudendo, che tutto non era un sogno ma che lui era guarito e che non l'aveva abbandonata. Michelangelo strinse a sé quel corpo debole, ossuto e fragile come aveva desiderato poter fare tante altre volte. Piansero insieme, stretti l'uno all'altra, senza mostrare l'intenzione di staccarsi: era chiaro per entrambi che, da ora in poi, non si sarebbero mai più separati.

I loro corpi si separarono ma non così le loro mani, le loro dita rimasero sempre intrecciate a suggellare il silenzioso patto del loro amore. Si guardarono.

«Ho temuto di perdervi» mormorò Vittoria, «senza neanche vedervi un'ultima volta. Non avrei potuto sopportarlo.»

Michelangelo soffermò il suo sguardo sul suo corpo così martoriato dai digiuni e dalla malattia.

«Adesso sono io a temere di perdere voi» rispose stringendo più forte le sue mani ossute, «come state, mia signora?»

Vittoria gli rivolse un sorriso malinconico.

«Confidate in Dio ed abbandonate la paura»gli disse, «andrò a Cristo quando sarà il mio momento, la malattia non mi dà tregua e io non voglio morire se non con voi al mio fianco.»

«Voi mi avete ridato la vita, mi avete riportato sulla strada di Cristo e non potrei mai abbandonarvi.»

Vittoria sorrise di nuovo, sciolse la presa delle loro mani e fece qualche passo nella stanza.

«Ho una cosa per voi» gli disse, il suo viso aveva improvvisamente ripreso un po' di colore, «ma prima sedetevi» aggiunse indicandogli il piccolo letto appoggiato al muro.

Michelangelo obbedì senza dire niente e la marchesa, appena ebbe preso il libro dallo scrittoio, lo raggiunse, gli si sedette accanto e glielo appoggiò sulle gambe.

«Per voi» gli sorrise.

Michelangelo accarezzò quel piccolo libretto con la punta delle dita, aveva la copertina in cartapecora e le pagine di carta bianchissima, una delle più pregiate che avesse mai visto. Lo aprì lentamente, lo sfogliò con un tocco delicatissimo. I suoi occhi scorrevano su quelle righe, su quelle parole e quelle lettere scritte da quella mano che conosceva così bene, che aveva stretto così tante volte. La sua grafia elegante, ordinata e curata lo portò di nuovo alle lacrime, il pensiero che la marchesa avesse messo tutta quella cura nel preparare un regalo per lui gli addolciva il cuore. E pensare, poi, che erano tutte poesie che aveva scritto lei stessa, meravigliosi versi che mai e poi mai avrebbe smesso di leggere.

Lo richiuse e lo appoggiò al fianco del letto per evitare di bagnarlo e sciuparlo con le sue stesse lacrime.

«Perché possiate ricordarvi di me» aggiunse Vittoria, «anche quando io non sarò più al vostro fianco.»

«Lo custodirò nella mia casa proprio come custodisco la vostra immagine nel mio cuore» disse, poi la sua espressione si fece più seria, «vi prego di non allontanarmi più da voi, di non costringermi più a dover fare a meno del vostro amore perché non potrei sopportarlo.»

Vittoria scosse il capo.

«Staremo insieme finché Dio ce lo permetterà» sussurrò stringendosi di più a lui, «neanche un giorno di meno.»

***

Era una giornata di sole e Vittoria e Michelangelo non potevano assolutamente trascorrerla al chiuso: il giardino di Sant'Anna de' Funari non era così bello come quello di San Silvestro al Quirinale, ma la parte sul retro era lo stesso molto gradevole: sul muro di confine, sotto ad un tabernacolo con una statuetta della Madonna in terracotta, erano state piantate delle rose colorate che davano tutto un altro aspetto al cortiletto. Era quello il momento, quando, appena dopo pranzo, il sole era alto in cielo e tutto intorno era silenzioso, come assalito dal torpore del primo pomeriggio, in cui Michelangelo trovava il tempo di stare qualche ora in compagnia della marchesa.

Si sedettero sulla panca di pietra attaccata al muro, erano circondati da bellissimi fiori rossi, bianchi e gialli. Michelangelo aveva portato dei fogli per fare qualche schizzo e li teneva posati sulle ginocchia, si guardava intorno come per cercare qualcosa che valesse la pena di disegnare. Vittoria, al suo fianco, era in silenzio e ascoltava, con un leggero sorriso sulle labbra il cinguettare degli uccelli. Entrambi si stavano godendo la tranquillità, la serenità del giardino e la reciproca compagnia, senza il bisogno di disturbare quel perfetto equilibrio della natura con le loro parole.

Poi lo sguardo di Michelangelo si soffermò sul volto di Vittoria, rimase ad osservarla qualche attimo senza che lei se ne accorgesse e poi, afferrato il carboncino, cominciò a schizzare sul foglio due volti appena definiti, uno accanto all'altro.

«Che cosa fate?» chiese Vittoria allungando un po' il collo per vedere meglio, ma l'artista non rispose, alzò lo sguardo e la fissò, come se volesse riempirsi gli occhi del suo volto, imprimere nella memoria ogni particolare di lei. Vittoria fece un'espressione per metà divertita e per l'altra metà stupita. Voleva chiedergli che cosa avesse intenzione di fare, ma poi la sua domanda, anche se non formulata, ebbe subito una risposta: Michelangelo cominciò a tracciare linee veloci sul foglio, mettendo ora tutta la sua attenzione al disegno. Ne aveva fatte poche, sparute e fini, ma Vittoria rimase stupida di riconoscere già, in quelle poche righe di carboncino, i lineamenti del suo volto.

«Credevo che non faceste ritratti» disse avvicinandosi un po' di più per vedere meglio.

«Credevate bene, mia signora» le rispose lui, mentre la sua mano continuava a dare vita al suo disegno, «ma posso fare delle eccezioni solo quando il soggetto è estremamente bello e rispecchia appieno ciò che ho nell'animo» fece una piccola pausa e poi aggiunse, ironicamente, «oppure quando voglio fare una caricatura.»

Vittoria rise, ma si sentiva inquieta. La sua figura rispecchiava ciò che Michelangelo aveva nell'animo? Lei era ciò a cui lui aspirava? Avrebbe voluto chiederglielo ma poi vide che aveva abbandonato il suo ritratto e aveva cominciato a schizzare un altro volto. Non ci volle molto perché i tratti della seconda figura diventassero definiti e lei potesse riconoscerla.

«Perché mi avete disegnata?» gli domandò anche se a questo le aveva già implicitamente risposto, «e perché state disegnando voi, adesso?»

Michelangelo alzò finalmente lo sguardo, la sua espressione era uguale a come l'aveva appena disegnata, i suoi occhi spenti sembravano accendersi solo quando incontravano quelli di lei.

«Voglio dare lunga vita a noi» rispose, «in qualsiasi modo, o in marmo o con i colori, perché, anche dopo la nostra morte, anche dopo mille anni, possano vederci.»

Lui si fermò un attimo, come incerto se pronunciare davvero quelle parole o no, ma la dolcezza del sorriso di Vittoria lo incitò a proseguire.

«Perché anche dopo mille anni possano vedere quanto voi foste bella e quanto io misero.»

Vittoria avrebbe voluto replicare che per lei non era assolutamente misero, anzi, era l'uomo migliore che avesse conosciuto, il più umile, il più sincero e il più buono, ma lui non glielo permise.

«Così che» continuò, la sua voce era un sospiro che solo lei poteva udire, «così che si veda come non fui stolto nell'amarvi.»

Uno dio per la sua bocca parlaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora