30. Aràcnia (prima parte)

60 11 57
                                    

DUNCAN

Tutto l'amore e l'entusiasmo che avevo provato nei confronti delle Libellule svanirono dopo le prime ore di viaggio. Le caratteristiche che me le avevano fatte così apprezzare nella prima prova furono decisamente surclassate dalla scomodità.

La posizione innaturale, a lungo andare, stancava le braccia e provocava crampi ai polpacci. Le ridotte dimensioni e il peso irrisorio del mezzo a fronte di una notevole apertura alare, facevano sì che, volando ad alta quota, fosse necessaria un'attenzione costante per mantenere l'assetto, in quanto si era preda anche delle più banali correnti d'aria. Dovevo continuamente spostare il peso da un lato all'altro.
Quando smontavo, ero sudato fradicio e sembrava che la mia schiena fosse stata presa a mazzate da un esercito di troll.

Nessun velivolo, per quanto minuscolo, poteva pensare di attraversare l'intricata giungla dell'Immensità: dovevamo sorvolarla.
Preoccupati di essere individuati da qualche pattuglia di ricognizione delle Api, procedevamo appena al di sopra delle piante. Circa ogni tre ore facevamo una sosta, atterrando sulla corolla di qualche fiore o su una foglia piatta che sporgesse dalla foresta.

Viaggiavamo lentamente, poiché non avevamo batterie di ricambio: dovevamo stare attenti a non spingere i motori al limite, per evitare che si scaricassero troppo in fretta, costringendoci a soste più lunghe per ricaricare gli accumulatori con i pannelli solari.
Per lo stesso motivo, non potevamo compiere grandi tragitti quando il sole tramontava.

In questo modo, furono necessari quasi tre giorni di viaggio per raggiungere la nostra meta, che si manifestò improvvisamente ai nostri occhi, simile a una grossa ferita nella vegetazione: un buco senza alberi, dopo centinaia di rami (*) di verde ininterrotto.

Aràcnia era la maggiore città dell'Immensità, una metropoli tentacolare in cui vivevano centinaia di migliaia di persone, appartenenti a svariate etnie.
Tuttavia, solo i Ragni avevano diritto al voto e ai sussidi di sussistenza. Tutti gli altri dovevano lavorare in cambio di vitto e alloggio, ed erano di fatto schiavi dei Ragni, trattati forse solo leggermente meglio dei disgraziati che si spaccavano la schiena nelle fabbriche sotto l'Alveare.

Ogni granello quadrato sembrava occupato da costruzioni. Giganteschi grattacieli, ricavati da scheletri vuoti di bambù, svettavano orgogliosi verso le nuvole, rivaleggiando in altezza con le piante della vicina foresta. Negli spazi vuoti tra uno e l'altro erano tese le famose ragnatele: sottilissime vele piezoelettriche di cui solo i Ragni conoscevano il segreto che, imbrigliando la forza del vento, producevano elettricità.

Altre stavano sospese sopra gli edifici stessi, tese tra coppie di lunghi pali anch'essi di bambù, che ondeggiavano nella brezza assieme a loro, assecondandone i movimenti.

Oltre l'agglomerato cittadino vi erano grandi distese coltivate, dedicate principalmente al foraggio per le bestie d'allevamento: i Ragni, infatti, erano grandi consumatori di carne.
Sapevo per averlo letto nei libri di scuola, che gli allevamenti intensivi di Acari erano sotterranei, per proteggere gli animali dalle attenzioni dei predatori e delle altre tribù.

Atterrammo al limitare della foresta, per riprendere le forze prima di chiedere asilo al sindaco della città. Perfino da laggiù, ad alcuni rami di distanza, potevamo sentire il frastuono della città.

All'Accademia presentavano il caos di Aràcnia contrapponendolo all'ordine organizzato della nostra comunità, e lo mostravano come il male assoluto.
Ma a questo punto, dopo tutto quello che avevo visto e vissuto in pochi giorni, ero disposto ad affrontarlo senza pregiudizi. O almeno a provarci, poiché essi erano profondamente radicati dentro il mio essere, e già provavo un senso di repulsione all'idea di ficcarmi in quella bolgia chiassosa.

Per dare meno nell'occhio, alla fine decidemmo di comune accordo di lasciare le Libellule e raggiungere la città a piedi.

Le soste erano state utili per conoscere meglio i nuovi componenti di quello che stava diventando il mio gruppo. Niyol aveva finito con lo starmi simpatico, nonostante la mia prima impressione e il nostro inizio burrascoso. In realtà, aveva un carattere simile al mio: probabilmente, erano stati proprio i suoi difetti a innervosirmi, come se mi stessi guardando in uno specchio.

Comunque, era un pilota capace, non temeva la fatica e non si lamentava mai. Sentivo di poter contare su di lui.

Enola non era da meno: dolce e premurosa, aveva un vero e proprio istinto per il vento. Fin dall'inizio le avevo chiesto di guidare il nostro convoglio, e con grande perizia lei riusciva sempre a intuire quale fosse la rotta meno faticosa.

Takoda, poi, era il fratello che non avevo mai avuto. Aveva riversato su di me una tale e incondizionata fiducia, che non potevo esimermi dal fare altrettanto. Anche se ci conoscevamo da poco, le esperienze avventurose che avevamo condiviso avevano cementato la nostra amicizia appena nata, rendendola salda e forte: non avevo mai provato nulla di simile per qualcuno, nemmeno nei confronti di Hudson.

Naturalmente lo volli al mio fianco e, poiché Enola non era disposta a perdersi l'occasione di visitare la città, toccò a Niyol restare a guardia dei nostri aerei.
Lui non si mostrò dispiaciuto. «Mi godrò il silenzio, dopo tre giorni in cui ho subìto il ciarlare ininterrotto di Takoda!» esclamò.

Quali che fossero i trascorsi tra i due, nessuno aveva intenzione di parlarne. Perfino la ragazza manteneva il più stretto riserbo, limitandosi a un "te lo racconteranno quando ne avranno voglia". Per fortuna, però, la vicinanza forzata sembrava aver limato la rivalità, anziché esasperarla; e se pur non si piacevano, i due sembravano disposti almeno a tollerarsi per quieto vivere.


(*) Ramo: unità di misura da insetti, un Ramo corrisponde a circa cinquanta Steli


Tra un attimo arriva la seconda parte! :)

Il dominio delle Api [COMPLETO]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora