Epilogo

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Noah ricordava bene la maestosità del tribunale di Vancouver. 
Le ampie vetrate dalle quali filtrava la luce e che circondavano l’atrio che avrebbe condotto all’ingresso dell’aula; il via e vai di avvocati e del personale amministrativo nei corridoi; il ticchettio degli orologi appesi alle pareti e l’indimenticabile brusio di sottofondo che riempiva l’enorme aula ad ogni udienza.

Non era la prima volta che metteva piede in quel posto e sebbene odiasse rammentare gli anni in cui aveva patito le pene dell’inferno, nell’esatto momento in cui la suola delle scarpe collidette con lo scalone esterno, si sentì immediatamente investito dalla valanga di ricordi. 
Prima di raggiungere l’ultimo gradino si fermò, proprio ad un passo dall’ingresso, percependo un peso all’altezza del petto che sopportò a malapena. Si sentì soffocare. 

Si guardò attorno e poi volse lo sguardo alle sue spalle e fu nel momento in cui individuò la presenza delle tre persone che negli ultimi mesi trascorsi gli erano stati accanto, che si concedette un lungo sospiro mentre il venticello estivo gli accarezzò il volto.   

Ethan inforcò gli occhiali da sole e serrò le labbra, stringendo tra le dita la sigaretta ormai quasi del tutto consumata, mentre i due gemelli si appoggiarono alla carrozzeria dell’auto attendendo un cenno di rassicurazione da parte del ragazzo irrigidito come un tronco che sostava in balia delle sue stesse paure. 

Noah non aveva più alcuna sicurezza, aveva perso la sua ultima speranza la sera in cui il padre gli aveva portato via la persona più importante della sua vita. Da quella sera tutto era cambiato, lui era cambiato, perché la paura più grande che per tanto tempo aveva celato con cura sotto cumuli di simulata tranquillità, si era trasformata in realtà. E la realtà era mille volte peggiore della paura.

Noah aveva sottovalutato il potere del padre, aveva sperato che il buon senso e il dolore per la perdita della moglie potesse convertirlo in una persona migliore e invece aveva constatato con rabbia che nemmeno la morte l’avesse cambiato in quegli anni; il potere lo aveva reso arido di emozioni e allergico agli affetti. Sembrava che quell’uomo, dalle stesse sembianze del figlio, avesse stipulato un patto con il diavolo in persona affinché la sua anima potesse abbracciare le fiamme corrosive dell’inferno.

E Noah, distogliendo lo sguardo dai suoi amici per incrociare quegli occhi della stessa tonalità e profondità dei suoi, non appena tentò di sfidare il padre compiendo un solo passo verso di lui, percepì la minaccia del tocco ustionante delle lingue di fuoco sulla sua pelle. 

Non si era accorto nemmeno che i suoi amici avessero seguito la scena e avessero mosso i passi per bloccare il gesto avventato. Era troppo corroso dall’odio per poter dare spazio ad altro.

«L’avvocato Denver ti sta aspettando in aula. Lascia perdere, Noah. Ti vuole solo provocare», mormorò Oliver tra i denti appoggiando la mano sulla spalla di Noah, al solo scopo di calmarlo. 

Noah era rigido come una stecca, sentiva il sangue ribollire nelle vene e l’odio che fremeva per riversarsi.

«Pensa a Layla», aggiunse poi, e sperò che il pensiero della sorella potesse aiutarlo nell’impresa. «Tua sorella conta su di te, non deluderla».

«Non lo farò», sussurrò in un sibilo appena udibile. Noah sospirò tremante e abbassò lo sguardo cercando dentro di sé quel briciolo di pazienza rimasta. Era esausto, stremato, non riusciva più a mettere insieme i pezzi della sua vita ma ascoltò le parole di Oliver e poi ascoltò anche il suo cuore.

Urlava: speranza. Urlava: Layla.

L’avvocato Denver lo accolse con una stretta di mano. Si accorse dell’ombra che attraversava il suo viso ma decise di non chiedere, nonostante da qualche mese a questa parte avessero instaurato più di un rapporto definibile professionale. Noah aveva visto in lui una specie di figura genitoriale che gli era sempre mancata, si era affidato a quell’uomo e aveva riposto nelle sue capacità la possibilità di riavere Layla con sé; e il signor Denver sebbene svolgesse un lavoro che comportava una certa professionalità, non era riuscito a creare un vero e proprio distacco, così come aveva sempre fatto durante la sua lunga e rinomata carriera lavorativa.

«So già come andrà a finire». Noah era terrorizzato dal verdetto perché dentro di sé la convinzione di aver già perso in partenza era più grande della speranza. 

«Le battaglie esistono per una ragione: per essere combattute. E se dovessimo perdere questa, combatteremo per vincere la guerra», replicò l’avvocato con determinazione. 

E alla fine la battaglia l’aveva persa davvero, perché la legge si presumeva uguale per tutti e di certo non sarebbe cambiata per un ragazzo onesto come Noah. Non bastava l’amore, non bastava la sicurezza di un tetto sulla testa e un buon lavoro. Non bastava la sua parola contro quella di un padre assente. Aveva disprezzato le ricchezze, gli uomini avidi e frivoli, eppure proprio questi ultimi avevano corrotto anche l’animo più incorruttibile. 

                                                                                        

                                                                                                                                                                                                 

Bonnie non riusciva a credere che le persone potessero essere così crudeli. Aveva saputo proprio da Kelsy il verdetto e non riusciva a non pensare a come potesse essersi sentito Noah. Dopo la festa organizzata dalla cugina, non aveva più avuto l’occasione di vederlo né di sentirlo. Entrambi avevano rispettato la promessa. 

Il distacco continuava a ferirla ma non poteva piombare nella sua vita trascinando i suoi problemi con sé. Noah stava affrontando qualcosa di molto più grande, non aveva bisogno di altri carichi che potessero appesantirlo ancora di più.

«Le piace il modello? Il corpetto è impreziosito da swarovski e rifinito a mano. Il punto vita è accentuato e il tessuto non sembra esageratamente aderente…Credo che questo sia l’abito migliore che abbia provato». 

Bonnie si guardò allo specchio e accarezzò con lentezza la spigolosità dei cristalli. Scivolò lungo il tessuto bianco, sfiorando la curva dei fianchi. Le piaceva, sembrava proprio un abito disegnato apposta per lei eppure la felicità che avrebbe dovuto sentire lasciava spazio ad un vuoto viscerale.

«Che gliene pare?». Insistette la commessa con un sorriso stampato sul volto perfettamente truccato.

«È meraviglioso», pronunciò Bonnie percependo un nodo alla gola. Si sentiva soffocare.

«Potrebbe lasciarci un attimo da sole?», intervenne Kelsy in suo aiuto avvolgendo le mani della cugina tra le sue. 

Bonnie deglutì osservando i loro corpi dal riflesso, le mani strette l’un l’altra e i cuori più vicini che mai; stava soffrendo e non riusciva a nasconderlo.

«Certo», acconsentì la donna sparendo qualche secondo più tardi.

«Non ci riesco…» Tremò tra le sue braccia e tra di esse si sciolse come un cubetto di ghiaccio. 

«Lo so, ma devi essere forte, tesoro. Ricorda perché lo stai facendo», accarezzò le guance umide della ragazza e le regalò un sorriso dolce. 

Bonnie sapeva qual era la cosa giusta da fare per riprendere in mano la sua vita, e se ciò significava rinunciare all’amore e fingere che tutto le andasse bene, almeno per il momento, allora l’avrebbe fatto. Avrebbe sopportato.

Bonnie sarebbe rinata. 

Dopotutto, glielo aveva promesso.

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Spazio autrice;

Siamo giunti alla fine.
*Piantino infinito*
Spero abbiate apprezzato l'assenza dei Pov; ci tenevo particolarmente a scrivere l'epilogo in terza persona, in modo tale che aveste la possibilità di leggere con l'occhio esterno.
E spero, soprattutto, che abbiate colto tutti i piccoli indizi seminati in ogni dove.

I ringraziamenti arriveranno stasera, vi comunicherò anche alcune cose sul sequel, che tra l'altro vi consiglio di inserire nella vostra biblioteca.

Commentate e votate, fatemi sapere cosa ne pensate.

Un abbraccio x


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