Capitolo Diciotto

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« Sono le quattro del mattino, non dovresti essere già a casa?»

Appoggio il mento sulle ginocchia rilasciando un sospiro pesante. Noah non è un ragazzo di molte parole ed il modo in cui ha evitato e continua ad evitare i miei occhi dopo la confessione di pochi minuti prima, ne è la prova.  Certo, l'opera parla da sola ma non mi aspettavo che rivelasse ad un'estranea il messaggio che si cela dietro ad un'apparente scenario astratto.

Pensierosa e senza sapere bene cosa dire, infatti, mi sono limitata a studiarlo in silenzio, seduta su una panchina non troppo lontana dalla sua figura immobile.

« Kelsy mi ha lasciata qui per seguire Hunter da qualche parte», scrollo le spalle schiacciando la guancia sul tessuto morbido che copre il mio corpo.

« Una cugina molto premurosa», ironizza afferrando lo straccio che gli portai poco prima e utilizzandolo per eliminare una macchia indesiderata.

« Mi sono addormentata, non vedendomi da nessuna parte probabilmente avrà pensato fossi andata via», la difendo.

« E quindi se l’è svignata senza assicurarsene»

Inarco un sopracciglio. « Mi ha chiamata al cellulare una decina di volte ma non le ho mai risposto.», rivelo. « Smettila di sentenziare», ruoto gli occhi al cielo spazientita.

« E come pensi di tornare a casa?», chiede voltando il capo quanto basta per individuarmi a pochi metri da lui.

« A piedi?», avevo già scartato questa ipotesi ma non vedo alcuna alternativa. « Credo… non lo so. Ci sarà qualche fermata da qualche parte, suppongo».

« Non alle quattro del mattino»

Mordo il labbro inferiore mentre i miei occhi saettano da una parte all'altra. « Casa mia non è così distante, andrò a piedi».

Noah mi fissa senza battere ciglio e con un'intensità tale da indurmi a distogliere lo sguardo. Avvolgo le gambe con le braccia avvicinandole ancora di più al petto, i suoi occhi scuri mi intimidiscono.

« Puoi rimanere qui, non è prudente andarsene in giro nel cuore della notte. Vancouver non è sicura come vogliono farci credere», gratta distrattamente la punta del naso, che si arriccia al passaggio del polpastrello ruvido, e come se niente fosse volta nuovamente le spalle.

« Non è la prima volta e poi non voglio disturba-», provo gentilmente a declinare la sua offerta ma l’occhiataccia ammonitiva che mi rifila mi costringe a serrare la bocca. « Va bene», mi arrendo controvoglia.

« Perfetto, adesso prova a fare silenzio».

Lo fisso sconcertata e profondamente infastidita dal modo in cui continua rivolgersi.

A Noah, d'altro canto, non sembra interessare.

Credo gli piaccia particolarmente vedermi fumante di rabbia e la cosa divertente è che non sembra impiegare chissà quali mezzi per farlo.

« Silenzio? Mi hai scambiata per un cane?», prorompo gonfiando le guance indispettita.

« No, i cani sono molto più ubbidienti di te», ribatte prontamente.

« Che cos- Argh! Non ti sopporto», strillo incrociando le braccia.

« L'hai già detto», rilascia una risata divertita abbassandosi poi sulle ginocchia.

I jeans che indossa fasciano le sue gambe lunghe e muscolose e inevitabilmente i miei occhi cadono giù sul tessuto scuro, e poi su, sulle braccia anch'esse robuste.

« Almeno non lo neghi», borbotto tra me e me. Noah afferra un barattolo di vernice e con un coltellino svizzero, che estrae dalla tasca posteriore dei jeans, lo dissigilla. « Che stai facendo?», sporgo il viso ma la sua schiena si comporta da barriera invalicabile.

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