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Don't you tell me what you think that I could be ⎯Believer,Imagine Dragons

Don't you tell me what you think that I could be ⎯Believer,Imagine Dragons

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PETER

Seduto sul divano logoro di quella che è a tutti gli effetti diventata la mia nuova casa, il mio subconscio ci tiene a ricordarmi che la mia è solo una sistemazione momentanea, tiro fuori dal pacchetto di Kent l'ultima sigaretta rimasta.

La guardo, indeciso se rimetterla dentro oppure ufficializzare la mia povertà con l'ultima fumata che per un paio di mesi (o almeno fino a quando non riuscirò a reinserire tra le spese urgenti anche il mio vizio del fumo) potrò permettermi.

Sono sul punto di accendermela quando un leggero picchiettio alla porta mi blocca. Che sia di nuovo il proprietario? Pensavo avessimo discusso di tutto.

È andato via da neanche cinque minuti, cos'altro avrà di così urgente da dirmi per essersi rifatto di nuovo le scale fino a qui?

Controvoglia mi alzo e apro la porta mancante di spioncino, ma la figura che mi si para davanti non è né grassa né sudata.

«Benvenuto a Londra, signor Carver.»

L'anziana signora mi allunga una torta su un piatto di ceramica, sigillata con una pellicola trasparente, e mi fa un sorriso a trentadue denti.

«Vedo che le notizie corrono» mi sfugge prima che possa mordermi la lingua, ma in risposta la donna si fa una grassa risata.

«Si accorgerà ben presto, ragazzo mio, che in questo condominio non c'è segreto che tenga» replica prontamente, e prima che le si stacchino le braccia minute le prendo il piatto dalle mani, ringraziandola con un cenno della testa. «Sapevo del suo arrivo prima ancora che mettesse piede qui dentro», ci tiene a precisare seguendomi dentro una volta che io mi sposto per andare a posare il dolce sul tavolo.

«Non poteva sapere che sarei rimasto, però. Portarmi una dolce di questa portata non è un po'azzardato?»

Si lasci andare a un altro sorriso da vecchia volpe, le rughe attorno alle labbra e agli occhi si moltiplicano. «In tal caso, l'avrei portata a qualcun altro mio caro. Devi sapere che sforno pietanze quasi tutti i giorni e li lascio ai condomini di questo posto, che la maggior parte delle volte si dimentica cosa sia il cibo. Se non fosse per me, metà degli affittuari sarebbe morto di fame.»

Non so cosa mi faccia più sorridere, se il suo marcato accento inglese o il suo rispondere a tono. Sta di fatto che dopo un anno un mezzo un sorriso mi aleggia nelle labbra, quasi interamente coperte dalla folta barba che mi sono fatto crescere. Me la gratto, senza sapere bene cosa aspettarmi. Pensa di andarsene? Le lancio un'occhiata imperturbabile. No, ha tutte le intenzioni di restare. Non la spavento, né il mio aspetto la mette a disagio. Non so se esserne infastidito o lusingato. Le piaccio abbastanza da spingerla a portarmi un dolce di benvenuto, ma non so bene se sia perché è davvero gentile o la sua si tratta solo di mera curiosità. Spero solo che questo non le dia modo di pensare che possa intrattenersi quanto più le garba. Sono stato chiaro: non voglio instaurare nessun tipo di rapporto con i vicini.

«Sei della Virginia?» mi domanda, la mia espressione sorpresa la preme a chiarire come l'abbia intuito. «Il tuo forte accento del Sud è identico a quello di mio marito. Pace all'anima sua», si mette a fare il segno della croce.

«Sono nato a Richmond.» Premo il fondoschiena sul piano del tavolo, le braccia conserte, la bocca a formare una linea dura. Sono sovrappensiero quando lei prosegue a raccontarmi di suo marito.

«Lui era di Norfolk, ma il suo spirito d'avventura lo portò qui a Londra. Non lo conoscevo ancora quando si arruolò durante la seconda guerra mondiale perché in quel frangente la mia famiglia decise di trasferirsi dalle parti della campagna aperta, il più lontano possibile dal putiferio che incombeva in quegli anni», si mette comoda sul mio divano, interrompendosi solo (una volta avvistato il pacchetto di sigarette) per dirmi che il fumo non è amico della salute —per riportare le sue esatte parole.

Che strano: dovevo arrivare a Londra, e proprio in questo postaccio, per ricevere una ramanzina su ciò che fa bene o male per la mia salute, e da una signora che ha vissuto la seconda guerra mondiale e che senza imbarazzo si è messa a sedere sul divano di uno sconosciuto per farci amicizia.

«Quella l'ho portata per mangiarla, non come soprammobile. Che aspetti a metterla sotto i denti? Ci ho messo anche una forchetta, vista l'assenza di posate in questa topaia.»

Non lascio ad altri salamelecchi di interferire con il mio appetito. Strappo via la pellicola e affondo la forchetta nella crostata. Ho una fame da lupo. Sono quasi dieci ore che non mangio nulla. Se avessi anche solo ingerito qualcosa durante il viaggio in aereo mi sarei vomitato addosso. Sono consapevole di sembrare maleducato, ma la mia vicina non ne sembra turbata o disgustata –a dirla tutta pare andarne fiera. Io vado avanti a mangiare senza farmi problemi, una forchettata dopo l'altra e ho quasi vuotato il piatto.

«Bravo ragazzo. Allora, dov'ero rimasta?»

***

Sono più di due ore che girovago per questa dannata città senza trovare traccia di "cercasi personale" e sono sul punto di arrendermi —le mani quasi a staccarsi per il freddo— e ritornarmene in quell'appartamento, che si era fatto meno brutto grazie all'aiuto di Gwendoline, è così che ho scoperto chiamarsi quella chiacchierona di un'anziana (in verità, da come slitta da una parte all'altra della stanza, tra i due quello a essere scambiato per anziano c'è la probabilità che sia io) che ha insistito ad aiutarmi a dare una ripulita all'appartamento.

Decido di avanzare di un'altra decina di passi prima di fare dietrofront. Il cielo è plumbeo, riflette il cemento del marciapiede, e persino il mio umore. Le macchine sfrecciano, sbattendosene di rallentare la velocità con le strade ghiacciate e la neve a oscurarne la visuale. Penso tra me che ci saranno abituati. Qui non siamo a Philadelphia, per fortuna ci troviamo miglia e miglia lontani dal luogo che invade i miei incubi più deleteri.  Sono sul punto di girare su me stesso, sfiduciato, e frustrato, quando in quel momento, dall'altra parte della strada, i miei occhi puntano un grosso pezzo di carta affisso sulla vetrina di un pub con su scritto: "cercasi personale: full time".

Mi escono di bocca una decina d'imprecazioni quando lo trovo chiuso. Corro per raggiungere il lato opposto, rischiando di cadere in ginocchio per via di una lastra di ghiaccio seminascosta sotto uno strato di neve, e sbircio gli orari di apertura. Finisco per ritornare sui miei passi, ma con l'intenzione di ripresentarmi la sera stessa.

Per campare mi serve un cazzo di lavoro, e alla svelta. I soldi iniziano a scarseggiare e non riuscirò a pagare il prossimo affitto se non mi muovo a trovarne uno di corsa. Mi metterò persino a supplicare se questo significa ottenere il lavoro.

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