Capitolo 40

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Bryan

La voglia di fare qualsiasi cosa è svanita dal momento in cui ho appreso la dolorosa notizia del trasferimento di Audrey.

Passo la sera a rimuginare nel mio letto, a chiedermi perché non me ne abbia parlato per tutto questo tempo.

Dovrei capirla. Dovrei capire la sua paura, dovrei capire la sua titubanza nel rivelarmi una verità così struggente, soprattutto per noi che ci siamo ritrovati dopo anni di silenzio e astio.

Dovrei capirla soprattutto perché io stesso in passato ho affrontato un trasferimento improvviso, seppur momentaneo.

Ma la collera è talmente ingente e dirompente, che a stento riesco a pensare chiaramente.

Ondate d'ira si alternano a immensi vuoti che mi fanno sentire come se avessi un buco scavato al centro del petto.

E' come se fossi caduto in una sorta di oblio che mi rende letargico, privo di energie.

Le uniche cose che mi riescono bene sono pensare, pensare e ancora pensare.

Ma tutto questo riflettere non mi porta a niente, se non ad aumentare la mia rabbia e le mie domande.

Questo loop di emozioni si ripete per giorni e giorni, e dopo una settimana inizio ad avvertirne le conseguenze attorno a me.

Derek e Colton iniziano a preoccuparsi e a fare domande.

Soprattutto Derek, che sembra avere un'innata dote nel ficcare il naso nei fatti altrui.

Quando una mattina in mensa scorgono Audrey passare accanto al nostro tavolo e i nostri sguardi sfiorarsi senza che nemmeno una parola fuoriesca dalle nostre labbra, all'improvviso sembrano capire.

Riesco a scorgere Derek trepidante, sulla punta della lingua mille domande che non vede l'ora di porre per soddisfare la sua consueta curiosità.

Ma Colton, che mi conosce fin troppo bene, capisce che non è il momento, perciò lo ammonisce con uno sguardo duro.

Il pomeriggio stesso, dopo un duro allenamento -che sono riuscito a seguire a fatica, preso com'ero da turbine di pensieri che sembrava risucchiarmi- il coach Johnson mi ferma prima che possa dirigermi a casa sotto agli ultimi spiragli di sole che illuminano Brooklyn.

-Figliolo- mi richiama, posandomi una mano sulla spalla. Il suo tono dolce mi induce a irrigidirmi. -E' da un paio di giorni che ti vedo... distratto-

-Mi scusi, coach. Le prometto che tornerò efficiente come al solito non appena... non appena tutto passerà-

Mentre le mie parole lasciano la mia bocca riarsa a fatica, mi ritrovo a domandarmi quando tutto questo passerà e si risolverà.

-Non voglio metterti pressione... sono solo preoccupato per te.-

Le sue parole mi colpiscono nel profondo e sento una fitta dolorosa attraversarmi il cuore.

Perché per un momento, per un minuscolo istante, ho desiderato che al posto della mano del coach, sulla mia spalla ci fosse la mano di mio padre.

Le sue dita a stringermi con calore il tessuto della maglietta, la sua voce rauca a riempirmi il cuore d'affetto.

Ma la realtà ben presto mi piomba davanti, crudele e spietata.

Eppure al posto della solita rabbia, nel mio petto non si agita nulla. Sento solo un incolmabile vuoto che sembra divorarmi il cuore e chiudermi la gola. Una sorta di rassegnazione, una stanchezza sfiancante che mi porta a sospirare.

-Non si preoccupi, dico sul serio- cerco di rassicurarlo, sebbene la mia voce ora inizi a tremare un pochino.

La sua espressione sembra rilassarsi, le sue sopracciglia folte e grigie si rilassano sul suo volto rugoso. -Oh... ho capito. I tipici problemi adolescenziali, eh? Scommetto che nel giro di un paio di settimane manterrai fede alla tua promessa e ritornerai più grintoso e forte di prima- mi colpisce la spalla con un paio di pacche che dovrebbero essere d'incoraggiamento, ma in questo istante mi infastidiscono anche più delle sue parole.

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