Capitolo 41

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Audrey

E' passata più o meno una settimana da quando io e Bryan abbiamo discusso: una settimana d'inferno, in cui non ho fatto altro che rimproverarmi, martoriarmi con i miei stessi pensieri e versare lacrime su lacrime.

Dopo aver passato il pomeriggio stretta tra le braccia di Vince a singhiozzare senza ritegno, pensavo di aver esaurito la mia scorta di lacrime.

Ma come ho constatato poi, quando il mio migliore amico se n'è andato (senza essere riuscito a cavarmi una sola parola di bocca, tanto era forte e scrosciante il mio pianto), non è stato così: per i successivi giorni non ho fatto altro che piangere.

Ho pianto rannicchiata nel mio letto, di notte, nascosta da tutto e tutti. 

Ho pianto silenziosamente nei bagni della scuola, nel tragitto dal mio appartamento alla fermata del pullman e viceversa.

Ma l'ho sempre fatto da sola, di nascosto dagli altri.

Non volevo che mi vedessero star così male, perciò mi sono piantata il mio più falso sorriso sul volto e ho proseguito la settimana come se nulla fosse successo.

Come se tra me e Bryan le cose andassero alla grande.

Come se non ci fossimo lasciati malamente, per colpa mia.

Come se non mi evitasse come la peste nei corridoi della scuola.

Come se non mi mancasse da morire, sebbene lo vedessi tutti i giorni.

Come se non esitassi ogni giorno con il dito sospeso sul campanello di casa sua, o sul suo numero di cellulare, indecisa se chiamarlo o meno.

Come se non stessi appassendo, giorno dopo giorno, soffocata dai sensi di colpa e dal vuoto della sua mancanza.

Come se non bramassi disperatamente anche solo una sua minima attenzione: un'occhiata truce, una smorfia adirata, un "vaffanculo" gridato a pieni polmoni.

Qualsiasi cosa, pur di sentirlo ancora una volta.

Perché dal momento in cui si è chiuso la porta alle spalle, una settimana fa... sembra come se per lui non esistessi.

Avrei voluto ignorarlo anche io come lui ha fatto con me durante questa settimana, ma mi è bastato scorgere la sua chioma scarmigliata una mattina in pullman per capire che mi sarebbe stato impossibile.

Ogni volta che lo scorgevo, o anche solo mi pareva di vederlo in lontananza, una fitta dolorosa mi stringeva il cuore, i sensi di colpa a sibilarmi nelle orecchie come serpenti velenosi.

Avevo ancora così tante cose da dirgli, a partire dal "ti amo anche io" che non avevo pronunciato, quando invece avrei voluto.

Volevo scusarmi con lui, chiarirci e avere l'occasione di passare questi mesi prima della mia partenza senza rimorsi, rimpianti o sensi di colpa torturanti. 

Avrei dovuto rincorrerlo, quel pomeriggio di fine Febbraio.

Non avrei dovuto permettere che se ne andasse prima che io finissi di spiegarmi.

Eppure la mia paura ami aveva paralizzata, impedendomi di muovermi. La confusione e il caos erano calati sulla mia mente come un velo greve: era accaduto tutto così velocemente e inaspettatamente che non avevo avuto nemmeno il tempo di pensare razionalmente, e mi ero così lasciata andare alle mie emozioni struggenti, che mi imploravano solo di farlo uscire da quella stanza per porre fine a quell'interrogatorio insopportabile, a quelle torture futili.

Ripensandoci a mente più lucida, non avrei potuto compiere errore più grande.

Ed ora eccomi qui, esattamente una settimana dopo, a piangermi addosso come una stupida bambina infantile.

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