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Capitolo scritto ascoltando
"Softcore - The neighbourhood"

Italia - Veneto, 12 giugno 2024
Un tuono mi fa sobbalzare, guardo l'ora, sono le sei. La stanza è leggermente illuminata da una luce fioca che entra dalle fessure della persiana.
Carlos dorme ancora, mi alzo facendo più piano possibile.
Afferro la vestaglia grigia in seta con i bordi in pizzo sulla poltrona vicino al letto e scendo in cucina.
Mi preparo una tazza di caffè ed esco sul portico a sorseggiare il mio caffè mentre osservo le gocce di pioggia far tremare le foglie delle piante non appena cadono su di esse, e i gattini vicino alla siepe rincorrersi.
Ripenso alla notte precedente, e le parole di Charles tornano taglienti nella mia testa, e non ho nessuno con cui parlarne dato che Laura non sa niente di tutto quello che è successo e che sta succedendo.
Inizio a torturarmi le mani, fino a quando non mi taglio un dito.
Il sangue esce fluente e goccioline cadono sulla vestaglia.
Poso la tazza sul tavolino e corro a prendere un cerotto dal mobiletto del bagno.
Carlos mi trova in bagno con le mani che tremano dal nervoso mentre mi disinfetto la ferita.
“Ei, ei, tranquilla” dice strappandomi la bottiglia di disinfettante dalle mani e procedendo a medicare la ferita.
“Che hai combinato?”
“Niente” mi limito a dire
“C'è qualcosa che vuoi dirmi?”
Non apro bocca e continuo a guardare le sue mani mentre mi mette un cerotto al dito.
“Ho capito, non ne vuoi parlare, se ti serve qualcosa io sono qua però ok? Mi prometti che se dovesse esserci qualcosa che non va me lo dici?”
Annuisco
“Ok, va bene. Ora però facciano colazione.”
Mi prende per mano e mi porta in cucina, mi mette a sedere a tavola e mi prepara davanti una ciotola di yogurt e cornflakes.
Sorrido e comincio a mangiare.
La nausea mi assale ogni minuti di più al continuo rimbombo delle parole di Charles.
Mi sale ancora più la nausea se penso a quel che è successo la sera prima.
La nausea mi impedisce di continuare a mangiare quando alla voce di Charles si aggiunge la mia che inizia a dargli ragione.
Carlos mi guarda preoccupato.
“Stai bene?”
Faccio segno di sì con la testa senza proferire parola.
“Sei sicura, hai mangiato a malapena quattro cucchiai di yogurt"
“Si, no, è che ho poca fame”
“Mmh, va bene”
Salgo al piano di sopra, estraggo un paio di jeans a palazzo e una banalissima maglietta bianca.
Mi metto a sedere in poltrona e inizio a fissare il vuoto, estraneandomi dal mondo, mentre nella mia testa era in corso una battaglia.
Mi aspettavo che Carlos sarebbe venuto da me a tentare di estorcermi le parole con la sua psicologia inversa per riuscire a capire cosa mi stava succedendo, inutile dire che gli avrei mentito ancora, ma no, non lo fece.
Lo vidi passare in corridoio, e uscì dalla camera degli ospiti con indosso una camicia azzurrino sbottonata, dei bermuda beige, e delle sneakers della puma bianche.
Non entrò in camera, non mi guardò nemmeno, se ne andò.
Lo guardai dalla finestra, ma lui e il suo ombrello nero sparirono alla mia vista non appena fu coperto dalla siepe.
Ringraziai il cielo di essere finalmente sola.
I sensi di colpa mi assalgono, la nausea cresce, come la rabbia nei miei confronti per star illudendo una persona amabile.
Le lacrime escono di rabbia dagli occhi, stringo i denti e serro i pugni.
Tiro ripetuti pugni al muro, infine cado a terra sulle ginocchia, copro il viso con le mani tremanti mentre le lacrime scendono fluenti come il sangue dalla mie nocche, che goccia dopo goccia creano una piccola pozza di sangue e lacrime a terra.
Barcollo fino al bagno, e prendo delle bende, con cui mi fascio le mani insanguinate.
Scendo in cucina e prendo un sacchetto di patatine fritte dal congelatore per alleviare il dolore alle mani.
Ritorno a sedermi sulla poltrona in camera, non pulisco il pavimento, e sul muro ci sono dei segni di sangue.
Sento la porta di casa sbattere, Carlos è tornato, chiudo a chiave la porta della camera da letto, non volevo farmi vedere in quello stato, non volevo si preoccupasse ancora di più.
“Toc toc, Linda tutto bene?” Tenta di entrare
“Oh, ma…ma perché ti sei chiusa a chiave?”
“Voglio solo stare un po’ da sola”
Sospira e si siede a terra con la schiena poggiata sulla porta della camera.
Mi alzo dal letto, non sopporto la sua presenza, non riesco a stare vicino a lui, mi da fastidio.
Afferro il telefono, lo metto in tasca, apro la finestra, e cammino sul tetto del portico fino alla terrazza.
Li scendo le scale, corro fino al cancello, prendo le chiavi nella cassetta della posta e scappo, scappo lontano, sotto la pioggia, mentre le lacrime escono imperterrite, e le bende sulle mani si riempiono di sangue.
Afferro il telefono, apro la rubrica e faccio partire una chiamata.
“GAB, TI PREGO, TI PREGO RISPONDI GAB!”
“Pronto?”
In lacrime urlo contro il telefono
“GAB, TI PREGO, HO BISOGNO DI TE, HO BISOGNO DEL TUO AIUTO”
“Linda, ma dove sei?”
“Sto scappando da casa mia, sto venendo a San Donà”
“Ma Linda…”
Non fa ora a finire la frase che ho già riattaccato la chiamata.
Prendo il primo autobus per San Donà, e lungo il tragitto continuano ad arrivare messaggi da parte di Carlos.

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