2. You left me Alone

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Prima Parte

2010.

Il mio nome è Carter. Perchè ero ad Ashford in un appartamento in affitto? Beh, semplicemente perché volevo seguire il mio sogno nel cassetto e quel cassetto era diventato un po' troppo piccolo per contenercelo tutto.
I miei genitori me lo dicevano sempre 'hai una possibilità su un milione di farcela'. Non mi aveva mai spaventato troppo l'idea di buttarmici a capofitto: era quello per cui ero nata e non vedevo motivo per il quale dovessi rinunciare ad una passione tanto grande quanto liberatoria.

Amavo cantare. Oh, si, e ripromisi a tutti quanti che ce l'avrei fatta in un modo o nell'altro, prima di andarmene di casa. Li avrei mandati tutti a fare in culo con classe, quando si sarebbero ritrovati la mia faccia su qualche cartellone locale che annunciava un evento imminente. La stessa prassi tutte le mattine: sveglia alle sei, colazione ricca di rimorsi sul non aver mai voluto studiare, uscire di casa, sbattere contro l'inutile individuo della porta accanto e correre verso un taxi per arrivare al lavoro, sperando che il traffico non mi inghiottisse.

Quel ragazzo della porta accanto, Oliver, lo detestavo a priori. Ogni qual volta tentavo di concentrarmi su qualcosa, c'era lui e la sua inutile band che faceva tuonare qualche odiosa melodia nel mio salone. Anche perché si trattava di concorrenza musicale. Ma chi voglio prendere in giro? Allora io non avevo nessuna band e la carriera musicale non si poteva chiamare nemmeno tale. Invece di incoraggiarli li spingevo giù, li affogavo, perchè ero invidiosa e incorreggibilmente egoista. Detestavo dirlo, ma io curavo molto me stessa, gli altri sono sempre venuti dopo la mia persona.

Se non sei il primo a prenderti cura di te non lo farà nessuno. E in un mondo tanto egoista, l'egoista ha sempre tanto successo. Dunque questo è il mio piccolo angolo di mondo che presto speravo si spandesse ad un pubblico di miei simili. Amavo altrettanto scrivere: avevo concepito un sacco di rilegature di mie vecchie storielle, sin da quanto ero solo un adolescente priva di qualsiasi vocabolo forbito. Scrivevo perché nessuno mi dava la possibilità di parlare apertamente e di esprimere ciò che ero.

Presi lo zaino con tutto il necessario e mi coprii le braccia con un cardigan nero abbastanza spesso. Dovevo coprirmi assolutamente quelle braccia o non mi avrebbero fatto lavorare in nessun modo, nemmeno sotto tortura. Era così da molto tempo ormai, da circa sei mesi. Ringraziai Dio. Non avevo intenzione di cambiare per un lavoro che non sarebbe stato il mio in nessun modo.

Uscii di casa leggermente in ritardo con un bicchiere di plastica contenente del caffè; essenziale ad Ashford di primo mattino. Chiusi l'appartamento in fretta e furia e nel mettere le chiavi nella borsa, puntualmente, Oliver mi sbattè contro. Il caffè si rovesciò su di lui. Ben gli stava.
"È già la seconda t-shirt che fa questa fine" Ringhiò beffardo. Fortunato che quel caffè era ormai semi-freddo. I suoi occhi non esprimevano nessuno stato d'animo se non la stanchezza data dalle occhiaie nere che adornavano gli occhi e la sua pelle bianca. Indossava una giacca fin troppo sexy che si coordinava magicamente allo sguardo, rendendolo magnetico in ogni caso. Aveva sempre quel fare stanco, strafottente e indefinito che mi dava alla testa ed alimentava il mio odio. Non lo avevo mai visto in ambiti diversi, ma non mi sarebbe mai piaciuto.

"Levati di mezzo, coso. Non ora" Soffiai nel vento che lasciai alle spalle. Proseguimmo per le nostre strade opposte e la giornata cominciò come tutte le altre: lui immerso nel mio sogno ed io che ancora cercavo di crearmene uno identico al suo. Quella che provavo per Oliver era invidia al cento per cento, ne ero sicura.
Starbucks era un luogo meraviglioso in cui fare colazione, si certo, quando non sei il povero impiegato che ti serve. Anche con quaranta gradi all'ombra dovevo tenere quella maledetta camicina nera a maniche lunghe.

Il turno iniziò ed anche la mia testa che andava sovra pensiero... In sei mesi non avevo combinato niente, i miei genitori non erano altro che delusi al massimo da una figlia come me. Volevano che fossi una acqua e sapone e che studiassi per diventare una fantomatica dottoressa. Iniziò tutto quando mio padre criticava ogni mia inadempienza con il massimo delle punizioni. Non ressi la situazione per molto...

Cliente dopo cliente mi ripromisi di dare una svolta alla mia vita proprio quel giorno.
"Un frappuccino, grazie"
A testa bassa e nei miei pensieri recuperai il frappuccino e lo posai sul bancone.
"Il tuo nome?" Sospirai esasperata. Era come minimo il centesimo cliente. Il mattino era il momento - ovviamente - più infernale per noi tutti. Tra residenti e turisti dalla pronuncia storpiata ero annoiata. Era pieno di turisti ad Ashford, in quanto la manica che collegava la Francia all'Inghilterra fosse relativamente vicina.
"Oliver"
Scrissi per le prima volta quel nome che invidiavo tanto e la mia testa iniziò una lunga blatera fra le mie stesse opinioni. Il pennarello sembrava scrivere a rallentatore.
È sexy.
Ti sta rubando un posto in vetta.
Ha un non-so-che di enigmatico.
Intanto è abbastanza strafottente da potersela battere con te.
In caso giocaste a testate ne uscireste con entrambi la testa fasciata, credi a me.

Nel mentre davo retta a tutte le voci nella mia testa, consegnai il frappuccino nelle mani dello stesso Oliver per cui la mia testa stava esplodendo. Gli stavo dando troppa importanza per essere una persona che non sopportavo.
Lo lasciai troppo in fretta e ruzzolò giù per il bancone, finendo ai piedi del ragazzo. Esso guardò il cielo infuriato e raccolse il cartone sfatto. Non era la prima volta che mi capitava. I clienti circostanti si spostarono infuriati notevolmente. I miei colleghi tirarono dei sorrisi imbarazzati e continuarono a lavorare, per quanto potesse essere fattibile.
"So che mi odi, ma potresti essere professionale...almeno al lavoro?" mormorò per non agitare troppo gli animi. Non capii perchè.

"Senti, predi questo Frappuccino e vattene, Oliver" rimase lì ad attendere che gli scrivessi il nome sul bicchiere. Peggio dei bambini, Cristo. Aveva un aria da sfida che faceva invidia a qualsiasi wrestler che facevano vedere in tv.
"Scrivilo con una bella calligrafia per lo meno..." Strafottente come sempre, faceva irare ogni molecola del mio corpo. Gliene procurai un altro e scrissi con il migliore dei falsi sorrissi ammiccanti.
"Grazie, Carter" Enfatizzò il mio nome, dopo essersi abbassato a leggerlo sul cartellino. Un azione con cui riuscì a sfottermi implicitamente. Odiavo essere un po' più bassa della media. In più aveva anche scoperto il mio nome che nascondevo gelosamente in quei sei mesi, anche se non aveva senso nascondersi, quando vedeva il mio viso ogni giorno.

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