2 - Sintonia

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Oltre che orgoglioso, Uriah si rivelò un bambino estremamente curioso. Volle sapere tutto del luogo in cui vivevo, dei miei amici, delle nostre routine e perfino dei nostri passatempi più comuni. Erano cose così scontate che non pensavo che qualcuno avrebbe mai potuto chiederle: dormire sotto abituali punti di riferimento con gli amici più cari, andare a prendere l'acqua per loro quando ci si svegliava per primi, dividerci in piccoli gruppi per andare da qualche parte o per farci insegnare qualcosa dai grandi, riunendoci di nuovo a fine giornata per raccontarci a vicenda le novità... La sua estraneità a tutto questo mi incuriosiva molto, sembrava provenire da un luogo incredibilmente lontano.

Inevitabilmente, gli raccontai che uno dei miei amici, per me, era speciale, e Uriah mi chiese di parlargli di Abel e di come ci eravamo conosciuti. Era una domanda un po' personale, in effetti, eppure a quel ragazzino dagli occhi bendati sentivo di poter dare tutta la mia fiducia.

«Nei miei primi ricordi lui era il bambino dall'altra parte del fiume» iniziai, richiamando alla mente immagini già allora sfocate. «Abitavamo a qualche ora di volo da qui, verso la prima catena montuosa a est. Il fiume in cui entrambi ci nutrivamo era molto grande e a volte ci incrociavamo alle due sponde di esso. Abel non faceva mai particolarmente caso a me, era sempre molto preso dai suoi fratellini. La sua famiglia era numerosa, aveva una sorella maggiore che era già partita, poi era arrivato lui e infine altri due fratelli più piccoli. Ho visto anche i suoi tutori, qualche volta, ma il più amorevole tra tutti era proprio Abel. Forse è per questo che attirava la mia attenzione, io non avevo fratellini con cui giocare».

«Ne avresti voluti?» intuì.

«Sì, credo di sì. Ma non penso di essere molto brava a prendermi cura degli altri».

Uriah avrebbe voluto dirmi che non lo credeva affatto, visto che accanto a me si sentiva al sicuro nonostante la cecità, ma per un bambino cresciuto da solo come lui non era facile aprirsi in quel modo.

«A quei tempi mi fermavo spesso sulla riva del fiume a tentare di disegnare con le sabbie di diversa tonalità» continuai a raccontare, «e anche se lui non notava me, doveva aver notato i miei scarabocchi, perché un giorno mi trovò intenta a disegnare e attraversò il fiume in volo per venire a parlarmi. Facemmo amicizia subito; siamo molto simili e poi abbiamo la stessa età. Per diversi mesi restammo legati alle rive opposte di quel fiume con le rispettive famiglie, ma passavamo sempre più tempo insieme finché un giorno, mentre il suo fratellino più grande iniziava già a parlare, davanti agli occhi dei suoi tutori nacque un'altra bambina. Abel iniziò a sentirsi di troppo e capimmo che per noi era arrivato il momento di andare via».

«Quanti anni avevate?» si stupì.

«Sei o sette, mi sembra». Come la maggior parte degli angeli che decidevano di prendere la propria strada.

«Non vi spaventava l'idea di abbandonare per sempre chi vi aveva cresciuto?».

«Non direi, Abel era dovuto maturare in fretta e io avevo bisogno soltanto di lui».

«E siete stati bene anche da soli?». Uriah era incredulo. Naturalmente pensava a Raphael, per lui era inconcepibile l'idea di allontanarsene per sempre.

«Certo, perché non avremmo dovuto? E poi è strano sentirlo dire da te, che hai intrapreso un viaggio da solo a undici anni».

Si ricompose subito. «Certo, chiedevo soltanto».

Prima che potessi incuriosirmi della sua reazione, Uriah mi chiese di raccontargli delle settimane che Abel ed io avevamo trascorso da soli, durante le quali non eravamo rimasti un solo giorno fermi nello stesso posto. Ricordo che mi colpì la pazienza con cui attendeva sempre che finissi il mio discorso prima di rivolgermi una domanda, nonostante la sua curiosità fosse evidente. Nessuno dei miei amici era così, nemmeno Abel.

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