4. Damage

2.5K 147 88
                                    

Nella foto: Callum Fimmel

Deficere est iuris gentium.

(Essere irragionevoli è un diritto umano)



CALLUM

Faceva caldo, il sole illuminava la spiaggia e l'acqua salata accarezzava la mia pelle. Risate. C'erano solo risate intorno a me e volti sorridenti, mi girai e mia sorella Celia era a pochi passi da me e mi mostrava una conchiglia.
- Callum mi allontano un momento, tieni d'occhio tua sorella – aveva detto mia madre.
Ma io non avevo ascoltato quelle parole, ero troppo impegnato a fissare lo scoglio in mezzo al mare, la mia nuova sfida, raggiungerlo e tornare indietro nel minor tempo possibile. Sembrava la cosa più eccitante che un bambino di otto anni potesse fare, qualcosa da supereroi.
Mi tuffai, incurante della notevole distanza e cominciai a nuotare verso lo scoglio, una bracciata dopo l'altra. Che sciocco che ero, la corrente era forte ma non volevo arrendermi, le braccia mi facevano male ma non smettevo di muovermi, vedevo la meta avvinarsi e quando mi scontrai con la parete rocciosa mi sentii invincibile.
Così forte, così indipendente e coraggioso. Che fine aveva fatto quel bambino?
- Callum! –
Rabbrividii quando sentii quella voce chiamarmi, mi voltai e mi resi conto che Celia era dietro di me, molto più affaticata e annaspante, provai a trascinarla verso la roccia.
- Ma che cavolo ci fai qui! – dissi, scocciato – non sono cose per le femmine queste –
- Volevo venire con te –
Lanciai uno sguardo alla riva a quel punto, sembrava spaventosamente lontana ma non avevo altra scelta che raggiungerla.
- Stammi dietro – dissi a mia sorella mentre mi staccavo dallo scoglio e riprendevo a nuotare.
Era sempre più difficile, la corrente era forte e le braccia mi facevano male, non sapevo quanto mancasse ancora alla riva ma decisi di non arrendermi. Serrai gli occhi e cominciai a nuotare con tutta la forza che avevo, le mie gambe bruciavano, sentivo il corpo farsi rigido, finii con la testa sott'acqua un paio di volte ma non mi fermai.
Così attaccato alla vita e intrepido.
Poi finalmente toccai il fondale con la punta del piede e man mano sentii la sabbia sotto di me, quando riaprii gli occhi ero sul bagnasciuga, riuscii a fare ancora pochi passi e poi crollai sulla sabbia bagnata. Non seppi per quanto tempo restai privo di sensi, forse ore o magari solo pochi secondi ma quando aprii gli occhi qualcuno stava urlando. Delle urla così spaventose che mi fecero accapponare la pelle, poi vidi il corpo senza vita di mia sorella che veniva trascinata fuori dall'acqua.
Mostro. Mostro. Come hai potuto lasciarla morire così?
Aprii gli occhi finalmente, quell'incubo si era brutalmente concluso anche se gli effetti sul mio corpo non erano passati. Sapevo di essere sveglio eppure quel corpo pallido continuava a restare fisso davanti ai miei occhi, quelle braccia penzolanti e lo sguardo sconvolto di mia madre. Sentivo la gola secca e la vista appannata, annaspai alla ricerca d'aria mentre la sensazione di soffocare in quell'acqua prendeva il sopravvento nel mio petto.
Mi sollevai a sedere nel letto ed una nuova fitta mi mozzò il fiato, quel semplice gesto mi provocò un bruciore in basso e fu allora che notai la parrucca abbandonata per terra, proprio accanto al letto.
No, ti prego no. Non questo di nuovo.
Mi voltai con timore verso sinistra, notando sempre più con maggiore sofferenza che quella non era la mia stanza. Proprio di fianco a me c'era il corpo immobile di Alencar, era ancora nudo, esattamente come lo ero io e questa consapevolezza mi rese davvero difficile trattenere un conato di vomito.
Cercai di fare piano, l'ultima cosa al mondo che volevo era svegliarlo e ritrovarmi quegli occhi addosso. Mi sollevai lentamente uscendo dalle coperte, mi chinai per raccogliere la parrucca e i miei vestiti, poi mossi i primi passi nella penombra della stanza verso la porta socchiusa. Poco prima di lasciare la sua camera mi voltai nuovamente a guardarlo e in quello stesso secondo mi pentii della mia azione. Alencar era sveglio, i suoi occhi luccicanti puntavano dritto verso di me, era come se mi stesse guardando dentro, mi sentivo spaventosamente vulnerabile sotto quello sguardo, non importava se fossi nudo o coperto da cinque strati di vestiti.
Alla fine lasciai la stanza e mi infilai nella mia, non trovai sollievo ma mi sentii più al sicuro, solo per qualche breve istante. Io non ero mai al sicuro, non ero mai libero, perché il mio più grande nemico viveva dentro di me. L'anta dell'armadio era semi aperta e quando tirai fuori il grosso pacco il disagio che provavo si intensificò, era lì che risiedeva la mia condanna.
Un lucidalabbra alla ciliegia, un profumo di Kenzo e una parrucca, tre oggetti che mi torturavano da tre lunghi anni. Celia adorava le ciliegie, quel ricordo mi assaliva ogni volta che sentivo sulle labbra quel sapore: il volto sorridente di quella bambina mentre mi porgeva un acino di ciliegia.
Sei danneggiato, spaccato, distrutto. Un uomo senza valore.
Ed era vero, io le avevo rubato la vita, avevo lasciato indietro mia sorella e lei era morta innescando una serie di innumerevoli tragedie. Mia madre mi detestava, potevo ancora sentirla urlare, dirmi quanto fossi stato egoista e ignobile.
L'hai lasciata affogare.
Persino i suoi occhi me lo urlavano nonostante ormai mi rivolgesse a stento la parola, il suo sguardo urlava ancora: colpevole. I miei genitori si erano dati addosso per mesi, nessuno sembrava poter etichettare quell'avvenimento come un tragico incidente. Bisognava trovare un colpevole, per mio padre era mia madre e per lei ero io.
Misi la parrucca nella scatola e la chiusi, sapendo di non poter sigillare quell'orrore per sempre. Su una cosa tutti avevano ragione, era colpa mia, non mi ero curato di lei nemmeno per un secondo, avevo nuotato senza voltarmi mentre lei annegava terrorizzata e sola. Per questo era tornata, per tormentarmi, perché io stavo vivendo una vita che spettava anche a lei, perché ero stato egoista e non mi sarebbe più stato concesso alcuno sconto. Io ero lei e lei era me, almeno per il tempo che le era concesso e non potevo oppormi perché adesso lei aveva trovato qualcuno per cui esistere, un aggancio nel mondo reale che non fosse il nostro inferno personale.
Mi gettai sotto la doccia nel tentativo di lavare via quella sensazione, quel disagio opprimente, avevo ancora il loro odore addosso, quel fottuto profumo e l'odore acre delle sigarette di Alencar.
Non sapevo com'era iniziata fra quei due, non ricordavo mai cosa succedeva quando lei prendeva il mio corpo e lo trattava come se io non esistessi, come se non dovessi affrontarne le conseguenze. Conoscevo solo la sensazione del mattino seguente, l'onta di umiliazione nel ritrovarmi nudo in quel letto, la stessa tremenda sensazione che mi avrebbe accompagnato sempre.
Ma te lo meriti, è il minimo che possa fare dopo averla uccida.
Era questa la realtà, lei non era altro che uno spettro che infestava la mia vita, qualcosa di cui non mi sarei mai liberato e non era mio diritto farlo. Perché lei era morta per colpa mia e nessun dannato mi dispiace le avrebbe ridato la vita. Lei era il mio rimpianto.  

SplitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora