Capitolo 22

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-Non può andare avanti così!- esordì la voce roca di Damian, sbattendo con forza una mano contro la scrivania. Sobbalzai di colpo, stringendo con ancora più forza, le mani dietro la schiena, e tenendo il capo chino verso il pavimento in legno.

-Continuo ritardo, disattenzione, mancata professionalità... Dov'è la Bethany di una volta?- esclamò picchiettando una penna contro il tavolo. Avevo le mani gelide e nonostante ciò, avevo la camicia bagnata dal sudore, provocato dall'ansia della situazione.

-Quando avevo applicato un taglio sul personale, tu eri passata, ma non ci vuole molto, per riampiazarti- mi ricordò con tono arrogante. Alzandosi dalla sedia ed inizando a passeggiare per la stanza, con le mani nei pantaloni e il capo inclinato all'indietro.

-Questo Hotel, è tra migliori di San Francisco. C'è bisogno di serietà, diligenza e impegno! Non costringermi a mandarti via!- sbraitò, con un tono di voce così alto, che temetti che dall'esterno, si potesse percepire la ramanzina che stavo subendo dal mio capo.

-Mi scusi- sussurrai debolmente, con la voce spezzata dal terrore.

-Torna a lavorare!- mi ordinò con un grido. Così velocemente, raggiunsi la porta, ed una volta uscita ripresi fiato, sotto lo sguardo impaurito dei presenti. Accorta delle presenze che avevo attorno, intenta a non dare spettacolo, mi sistemai i vestiti, cercando di ricompormi. Mi schiarii la voce e sibilai:

-Con permesso- per poi raggiungere velocemente l'uscita dell'hotel. Strinsi saldamente la borsa tra le mie mani, infilandomi il caldo giaccone.

Socchiusi gli occhi, sperando di poter dimenticare tutto il più presto possibile. Non mi era mai capitato di ricevere un rimprovero da parte della direzione, e come prima volta, ero rimasta turbata dalla reazione del mio capo, Damian. Un uomo glaciale, freddo, privo di compassione ed umanità, era interessato solo al profitto del suo albergo.

Verso la fine del mio turno di lavoro, mi si era avvicinata una ragazza, invitandomi a seguirla verso l'ufficio di Damian, il quale aveva espresso il desiderio di vedermi. Il suo volto severo, mi mise i brividi; le sopracciglia aggrottate e il nervosismo con cui premeva, il suo dito contro il tappo della pena, mi fecero intuire, che non mi aspettava una piacevole chiacchierata.

Impazzivo all'interno di quell'edificio. Avrei desiderato prendere a calci tutto ciò che mi si presentava davanti, per poi nascondermi dal mondo. Si propagò per tutto il petto una strana sensazione, uno strano senso di vergogna unito alla rabbia. Avrei voluto scomparire e lasciare svanire quell'avvenimento in modo tale da poter tornare a lavorare in tranquillità, senza problemi e frustrazioni.

In quel momento più che mai, desideravo del caldo caffè, scendermi per la gola. Spostai lo sguardo verso la caffetteria presso cui lavorava Noah. Ebbi l'istinto di entrare, e con indifferenza, ordinare un innocua tazza di caffè, quell'idea venne velocemente repressa dal mio istinto razionale.

Così mi diressi il più velocemente possibile lontano dal locale, dirigendomi verso casa: si era fatto davvero tardi. La discussione di Damian, era stata composta da una serie di frasi, urlate con ferocia, ripetute a non finire, per una ventina di minuti. Uno strazio che avrei voluto dimenticare con un rientro a casa pacifico, susseguito dal mio letto, che mi avrebbe tenuto compagnia, per la notte intera.

Dopo essere salita in macchina mi diressi verso casa mia. Frenai di colpo, venendo spinta verso il cruscotto con violenza, per poi iniziare ad imprecare con volgarità, lanciando una serie di duri colpi al volante della macchina.

Doveva essere una maledizione, trovarmelo davanti, in ogni luogo andassi. La giornata appena trascorsa tuttavia non favoriva una situazione agiata per il mio animo. Parcheggiai la macchina velocemente, con poca cura, rischiando di graffiare quella retrostante alla mia, svariate volte. Afferrai con decisione la borsa, e dopo aver estratto le chiavi, con violenza chiusi lo sportello della macchina, attirando l'attenzione di Noah, che davanti alla sua porta, era intento ad aprirla. Si voltò di sfuggita, incrociando il mio sguardo infuriato, per poi tornare ad osservare la serratura.

Sentii le vene esplodermi, ed i muscoli irrigidirsi, tale era la furia che provavo in quel momento. Ero stufa di essere trattata come un fantasma. Ero una ragazza, e per quanto non più fidanzati, credevo fosse il minimo salutarsi cortesemente, in quanto vicini di casa.

CIÒ CHE È GIUSTO [COMPLETA]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora