Amelia "Mia" Parker è un'inguaribile sognatrice che abita con la sua famiglia in una fattoria poco distante dalle coste della Gran Bretagna, a nord di York. Amelia ama leggere, scattare foto e, soprattutto, ama camminare. Le lunghe passeggiate lungo...
Per colmare un Vuoto devi inserire ciò che l'ha causato - Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le Fauci - Non si chiude un abisso con l'Aria
Emily Dickinson
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27 agosto 2019
Per la decima volta in mezzora, il taglio che ho sotto l'unghia dell'indice sinistro riprende a sanguinare, sporcando il secondo tasto del manico della chitarra e facendomi imprecare a mezza voce. Smetto di strimpellare con la mano destra e la uso per adagiare sul letto la Martin, prima di recuperare il fazzoletto che avevo infilato in tasca e tamponare la ferita. La pelle del polpastrello non è abbastanza dura per resistere a ore di allenamento con la chitarra, questo lo sapevo quando ieri pomeriggio l'ho sfilata dalla custodia e ho deciso di imparare a suonare una canzone. Eppure niente mi ha fermato dal torturare le dita, i tendini, i polsi – e anche la mia sanità mentale, oltre che quella dei miei familiari costretti ad ascoltare per ore la stessa melodia – pur di riuscire nel mio intento.
Così ora sono qui, ad aspettare che l'indice smetta di sanguinare copiosamente, per poter finire di imparare accordi e arpeggio della seconda parte del ritornello.
In cuffia, la canzone è quasi finita, ma non la spengo. Lascio che la voce roca del cantante mi graffi i sensi, che raggiunga l'anima e che la accarezzi, ripetutamente, mentre socchiudo gli occhi e respiro a fondo.
Ho sempre visto la musica come un'altra voce, per l'essere umano. Una voce che non ha modo di essere giudicata giusta o sbagliata, perché l'unica cosa che si può fare è rimanere in silenzio ad ascoltarla, per percepirla varcare ogni nostro cancello interiore, abbattere ogni nostra difesa, e lasciare che si apra un varco in direzione del nostro cuore.
Aprendo di poco le palpebre, sfioro con le dita della mano sana le corde dorate della mia Martin acustica, regalo di laurea da parte dei miei genitori che si erano stancati di sentirmi suonare con la vecchia chitarra classica donatami per i miei quindici anni dallo zio Richard, reduce di anni di botte, graffi e cadute e inevitabilmente obbligata a produrre suoni talmente dissonanti che aveva rischiato di finire più volte nel falò dell'equinozio d'autunno.
Sfioro con i polpastrelli la sesta corda, il Mi alto, e la pizzico lasciando che il dolce suono che la cassa amplifica e che l'aria trasmette mi giunga alle orecchie, sovrastando il volume della canzone che sta terminando. Nel momento in cui la voce del cantante sfuma e le ultime note si perdono nelle mie orecchie, il silenzio torna padrone di ogni cosa. Con uno scatto tolgo gli auricolari dalle orecchie e li getto sul letto assieme al telefono a cui sono attaccati, spaventata dal vuoto che si crea ogni qual volta la musica cessa di vivere.
Deglutisco, mentre quel pensiero torna a pesarmi nel petto. È una cosa che mi accompagna da anni: la consapevolezza che ad ogni canzone che termina, ad ogni nota che subisce un troncamento, ad ogni inizio di melodia che per un vile aborto non può più vivere, segua un vuoto inestinguibile che solo altra musica è in grado di colmare.