21. L'eco e l'estranea

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Come se tutti i Cieli fossero una Campana,
e l'Esistenza, solo un Orecchio -
Ed io, e il Silenzio, una Razza estranea
Naufragata, solitaria, qui

Emily Dickinson, 1861

Emily Dickinson, 1861

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1 ottobre 2019

Muovo un passo avanti e mi ritrovo con il corpo addossato alla pietra scura delle massicce mura di cinta di York. È fredda: nel momento in cui il maglioncino che indosso la incontra, alcuni brividi mi serpeggiano lungo le braccia a causa del brusco divario di temperatura tra la roccia e il calore del mio corpo. Chiudo gli occhi, perché una parte di me vorrebbe fondersi con le mura e divenire uno dei molti fossili che nelle prossime settimane mi ritroverò a studiare, restare un intreccio di venature e disegni sulla pietra. Perdere la voce, l'intelletto, l'anima. Perdere me stessa, come ho già fatto lasciando la brughiera all'alba di stamattina per giungere qui a York, una città dal fascino medievale che ho sempre amato, ma ben diversa dalla terra in cui la vera me ama vivere.

Socchiudo le palpebre, lasciando che gli occhi si appoggino sulla roccia delle imponenti mura costruite dai normanni centinaia di anni fa, all'epoca dei romani, le stesse che re Enrico VIII ha visto quando ha visitato York nel 1541. Le stesse che decine di persone, turisti o abitanti dello Yorkshire, percorrono ogni giorno, da una porta fortificata all'altra, per sentirsi parte della realtà di York, della sua storia, del suo vissuto, del suo passato. Perché quando resti coinvolto nel passato di qualcosa, o di qualcuno, questo diventa irrimediabilmente parte di te. E non c'è modo di tornare indietro.

Allungo una mano per accarezzare la roccia e penso a quante dita debbano aver eseguito questo stesso movimento. Le mie dita si appoggiano gentili sulla durezza di essa e scivolano sulle strette venature, sui sassi in evidenza, mentre nella mia testa sono guanti di pizzo di donne eleganti a toccarla, o dita sporche di sangue di mercenari in fuga, o pelle dura di soldati un tempo posti alla difesa della città. La pietra sembra scaldarsi sotto il tocco leggero delle mie dita. È quasi strano poterla sfiorare con la pelle nuda, invece di essere obbligata a indossare guanti usa e getta, mascherina e tutte le altre precauzioni di quando mi ritrovo a studiare un reperto e a doverlo trattare con la massima cura, perché ogni traccia di polvere può essere in realtà una forma organica, ogni crepo può divenire indizio di una lotta o del passaggio di qualcuno, ogni dettaglio potrebbe fare la differenza.

Respiro a fondo l'aria fresca del primo pomeriggio, sorridendo quando il mio stomaco borbotta. Il pranzo mi è passato di mente; York mi aspettava, e io sono tornata in uno dei miei posti preferiti di questa città: le mura, dalle quali si può godere un punto di vista inedito e sorprendente della città, scoprendone scorci, cortili, giardini, stradine, ponti sui fiumi e altri luoghi non visibili altrimenti.

Vivere un luogo da estranei porta a cercare di conoscerlo dalle fondamenta, pezzo per pezzo, arrivando ad apprezzarne ogni sfaccettatura, o a disprezzare quelle meno belle, ma senza esserne totalmente coinvolti. Forse è questo che io ancora non riesco a fare con questo posto. Continuo a vederlo come una prigionia, come un luogo in cui il rumore della vita è troppo più forte del silenzio della brughiera a cui sono abituata, un luogo in cui i ritmi sono più veloci, le richieste più immediate, e io finisco per sentirmi come un naufrago trasportato dalla corrente e capitato su una terra sconosciuta, troppo diversa da quella a cui era abituato. Sorrido mestamente ripensando che sono anni che torno a York, per studio e poi per lavoro, e che per quanto io ami il suo affascinante stile gotico, la magia che vi si respira attraverso, la bellezza dei parchi, le leggende sui fantasmi, il mistero che ogni parete traspira, continuo a faticare a sentirmi a mio agio in essa. A vivere da estranea, senza mai abituarmi davvero.

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