47. La fine e il tutto

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Quasi vorremmo che la Fine
fosse più lontana -
Troppo grande sembra
stare così vicini al Tutto

Emily Dickinson

8 dicembre 2019

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8 dicembre 2019

È un soffio di aria gelida a svegliarmi, strappandomi con violenza alla dolcezza del sogno che stavo vivendo. Sbatto le palpebre ripetutamente, avvertendo grosse borse sotto gli occhi gonfi di stanchezza. Quando riesco ad aprirli quel tanto che basta per leggere le cifre rosse sulla sveglia digitale che emerge dal caos di cianfrusaglie abbandonate sopra il comodino, mi stupisco nel constatare che sono già le cinque del mattino. Speravo di poter dormire ancora a lungo, ma a quanto pare il tempo non è d'accordo con me.

L'aria fredda torna a infilarsi sotto il colletto della maglia a maniche lunghe che indosso. Tento di alzare la coperta e di accontentarmi del tepore sottostante, ma non è sufficiente a reprimere i brividi causati dal gelo.

Con uno sbuffo, mi alzo lentamente a sedere. Nel farlo, porto la mano destra sulla testa, massaggiandomi piano il cranio dolorante. Reprimo un conato, deglutendo il senso di nausea che segue la mia decisione di abbandonare la posizione prona. Ho tutti i sintomi di un post-sbornia, quando in realtà a causarli è l'aneurisma che ha totale potere decisionale sulla fine dei miei giorni.

Tenendo sotto controllo la nausea, che mi stringe lo stomaco in una stretta morsa e mi ostruisce la gola, lascio ciondolare le gambe oltre il bordo dell'alto materasso e mi faccio forza per alzarmi. Un forte capogiro mi coglie non appena le piante nude dei miei piedi si appoggiano sulle mattonelle di marmo del pavimento, così sono obbligato ad appoggiarmi al muro alla mia sinistra, spingendomi forte contro l'intonaco scuro della parete. Il vento freddo proveniente dall'esterno, che riesce a penetrare nella stanza a causa delle fessure tra le vecchie imposte e il muro, non è nulla in confronto al gelo che avverto dentro, mentre la mia schiena si posa contro la parete e la mia testa sembra artigliata dalla mano gigante di un mostro senza pietà.

Faccio un respiro profondo, poi un altro e un altro ancora, contandoli. Ogni volta che il dolore torna a farsi sentire sembra più forte, più caparbio, più determinato a farla finita. Il tutto contro il quale mi sto scontrando è qualcosa di troppo grande, per me.

L'aria fredda torna ad aggredirmi la pelle esposta del viso, delle mani e dei piedi, così con un basso ringhio affronto il male e mi stacco dalla parete, muovendo qualche passo per avvicinarmi alla finestra. Il marmo sotto i miei piedi è ghiacciato, finché conto le mattonelle che attraverso per impedirmi di cedere al dolore alla testa e di impazzire. Quando giungo di fronte alle imposte, dò uno strattone al legno per spingerlo il più possibile contro l'intonaco del muro, inveendo contro i proprietari del condominio che non si sono ancora presi la briga di chiamare qualcuno per provvedere a sistemare. Il legno scricchiola sotto la presa delle mie mani, finché i palmi premono contro le giunture, ma ogni mio sforzo è vano: quando le stacco e appoggio le dita dove prima c'era la fessura, sento l'aria gelida pungermi i polpastrelli a causa degli spifferi ancora presenti.

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