16. La separazione e la lotta

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Il giorno bussò, e dovevamo separarci -
Nessuno dei due era il più forte, ora
Egli lottò, e anch'io lottai -
Non lo facemmo, tuttavia

Emily Dickinson, 1860

Emily Dickinson, 1860

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2 settembre 2019

Per me i primi giorni di settembre sono sempre stati una continuazione dei mesi estivi. Li ho sempre percepiti uguali ai precedenti e ai successivi, perché niente ha mai interrotto l'annua concatenazione di eventi che li definivano. Niente, prima che io conoscessi Matthew Ward.

Scaccio con una mano la mosca che mi si è appoggiata sul naso, mentre mi posiziono meglio sul cuscino. La nuca sudata fa attrito contro il lenzuolo, irritandomi la pelle, così mi volto di lato, sperando che l'aria fresca proveniente dalla finestra aperta possa aiutarmi a diminuire il fastidio. Tutto inutile. Con uno sbuffo mi metto a sedere, lasciandomi scivolare il lenzuolo in grembo. Le mie mani artigliano la stoffa, mentre respiro a fondo, cercando di cancellare dalla mente tutto ciò che non mi sta permettendo di dormire in questa prima notte di settembre.

Il buio, attorno a me, è quasi completo: l'unica fonte di luce proviene dalla luna che rischiara il firmamento.

Avverto una sensazione di oppressione all'altezza del petto, la stessa che indica un brutto presentimento o un fardello da portare. Mi porto una mano all'altezza dello sterno, premendo le dita sopra la camicia da notte leggera, ma la tensione non si allenta. Non lo fa da due giorni.

Scosto il lenzuolo, scoprendomi le gambe, e le volto per farle ciondolare oltre il bordo del letto. Forse una tisana potrebbe aiutarmi a recuperare quel sonno che da due notti sembra non volere per nessuna ragione farmi visita.

Scendo dal letto e strizzo forte gli occhi per riconoscere le forme dei mobili nell'oscurità quasi totale. A tentoni raggiungo la porta della mia stanza, la apro e mi ritrovo in corridoio, dove il buio sembra volermi mordere da quanto denso è in quest'angusto spazio. Una volta giunta alle scale, mi reggo alla balaustra per scenderle, attenta a non inciampare a causa di alcune crepe e avvallamenti del legno. Quando sono sull'ultimo gradino, un fruscio mi fa alzare gli occhi di scatto. Noto una figura nera muoversi sul divano del salotto e trattengo il fiato mentre essa si mette seduta.

«Mia? Sei tu?» chiede la voce di mia madre.

«Mamma, cosa ci fai qui?» sussurro nell'oscurità, mentre mi avvicino al divano.

«Ho finito di guardare quel bel film troppo tardi. E tu cosa ci fai alzata, signorina?».

Alzo le spalle, nell'oscurità che ci avvolge come un pesante mantello. «Non riuscivo a dormire. Mi preparo una tisana».

Mia madre rimane un istante in silenzio, il tempo necessario a sfiorarmi una guancia con le dita fresche, prima di mormorare: «Cos'è che non ti fa dormire, Mia?».

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