50. L'inferno e il paradiso

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Lasciarsi è tutto quanto sappiamo
del Paradiso,
e quanto ci basta
dell'Inferno.

Emily Dickinson

13 dicembre 2019

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13 dicembre 2019

«Il progetto sarà finanziato da sponsor di grande prestigio» asserisce Paul Newman, sistemando il nodo della cravatta sotto il colletto della camicia. «Noi del comitato direttivo ringraziamo tutti coloro che si sono adoperati per contattarli e per compilare la lista di nominativi dei responsabili». I suoi occhi danzano da un volto all'altro, scrutando le nostre espressioni serie e concentrate.

Sono due ore che tutto il personale dell'azienda è seduto in sala riunioni per ascoltare le ultime novità sul nostro recente coinvolgimento in progetti attivi su scala internazionale. Siamo provati dalla stanchezza, nonostante tutto il caffè di cui sono testimoni i bicchieri sporchi impilati al centro del tavolo, tuttavia ci accomuna la soddisfazione per gli impieghi futuri e l'orgoglio di essere parte dell'azienda.

Paul si schiarisce la voce. «Ringraziamo anche chi si è preso carico dell'accompagnare le nuove reclute» aggiunge, spostando lo sguardo su di me e su altri due impiegati assunti da poco. «Dell'aiuto in più qui non va mai disdegnato, soprattutto se si tratta di far lavorare grandi cervelli».

Il silenzio torna a riempire lo spazio attorno a noi dopo che la sua voce si è spenta, donando un po' di sollievo al mio mal di testa pulsante. È il caso che io rilegga la lettera di dimissione dall'ospedale per passare in farmacia ad acquistare gli analgesici che vi sono prescritti.

«Ci salutiamo con l'augurio che riunioni di questo tipo siano frequenti» conclude Paul Newman con un sorriso, in seguito al quale tutti i lavoratori trattenuti entro le quattro mura di questa stanza si alzano in contemporanea per sgranchire le gambe indolenzite.

Nella confusione generale, io rimango seduto una decina di secondi in più su questa scomoda sedia di legno per permettere al mio cervello di tranquillizzarsi, prima di cominciare a raccogliere i fogli sparsi sulla porzione di tavolo di fronte a me e ad impilarli.

«Matthew Ward».

Una voce conosciuta mi fa voltare. Con un sorriso saluto Victor Myles, l'uomo incontrato il mio primo giorno qui a Manchester. «Signor Myles, che piacere rivederla» esclamo, porgendogli la mano destra che lui prontamente stringe.

«Come procedono le cose, ragazzo? Ho sentito che ti stai dando da fare».

Scrollo le spalle. «Faccio del mio meglio. L'azienda ne vale la pena, così come il settore per il quale lavora».

«Ben detto» afferma il signor Myles. «E menti come la tua non possono che giovarle».

«La ringrazio, signor Myles».

«È la semplice verità» replica lui, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Ricordati» aggiunge, in tono basso e confidenziale, «che se li colpisci fin dagli esordi, non puoi che avere la strada spianata più avanti».

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