44. Il tuono e la tomba

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Il Tuono si sgretolò come macerie
Com'è bello essere nelle Tombe
dove l'Umore della Natura non penetra
né proiettile mai arriva

Emily Dickinson, 1870

 La saliva si mescola alle lacrime di Mia, che mi fanno il solletico infilandosi tra i peli della barba ma non mi convincono a desistere dal mio tentativo di arginare le paure di Amelia Parker

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La saliva si mescola alle lacrime di Mia, che mi fanno il solletico infilandosi tra i peli della barba ma non mi convincono a desistere dal mio tentativo di arginare le paure di Amelia Parker. Nonostante la sua reticenza, premo più forte la mia bocca contro la sua, tentando di aprire labbra che sono ostinatamente serrate. Il corpo di Amelia rimane rigido e distante dal mio. Deglutendo un boccone amaro mi scosto da lei, perdendo quel seppur lieve contatto. Scruto le sue iridi che rifuggono le mie, e le scopro buie come due pozzi in cui l'inferno sta costruendo il suo nido.

«Cosa succede, Mia?» mormoro.

Il silenzio della stanza è troppo pesante, troppo ingombrante, troppo tutto. Il respiro di Amelia Parker quasi non si percepisce, nonostante il suo petto si alzi e si abbassi ritmicamente, e l'unico rumore proviene da un macchinario accanto al letto, che presenta strani grafici sul display touch-screen.

All'esterno, il temporale imperversa più adirato che mai. Sposto lo sguardo oltre la finestra e osservo le nubi nere fronteggiarsi in cielo, obbligate a correre da una parte all'altra da un vento impetuoso che sbatte le imposte, piega gli alberi del cortile e trascina con sé foglie, volantini, carte, borse di plastica, rifiuti e qualsiasi altra cosa trovi a terra, sbattendola contro i muri. Lampi lontani si infilano tra le nubi, ferendo il buio, e vorrei scattare una foto di quel tentativo della luce di resistere: mi ricorda le parole di Amelia Parker, prima della nostra corsa sotto la tempesta, quando mi ha ricordato che è lei la prima a sovvertire ogni regola, per questo non dovremmo lasciarci sopraffare da essa. L'Amelia che ho di fronte ora sembra una persona completamente diversa.

«Vivere in questo modo è un'agonia».

Mi volto di scatto in direzione di Mia, senza curarmi di nascondere lo sgomento dentro i miei occhi. «Mia...».

«Non sopporto il rumore dei macchinari» bisbiglia Amelia Parker, la voce resa quasi stridula dalla disperazione. Alcune lacrime si formano alla base delle sue iridi in grosse gocce e scivolano lungo le sue guance candide. «Non sopporto la compassione del personale. Non sopporto i colori delle pareti, la stoffa dei vestiti, il sapore del cibo». Le mani di Mia si stringono l'una all'altra, quasi potessero attaccarsi a una catena invisibile in grado di strapparla al gioco che il destino le ha imposto. «Non sopporto i minuti interminabili durante le chemioterapie, trascorsi immobile a fissare il soffitto o il buio rossastro dietro le mie palpebre chiuse. Non sopporto l'odore di disinfettante, la vista delle scatole di medicinali, gli sguardi esasperati dei medici quando leggono i referti dei miei esami». Mia scrolla le spalle, incurante delle lacrime che le inzuppano il bordo della maglia del pigiama.

Allungo le dita in direzione del suo viso di porcellana e sfioro la sua pelle per raccogliere parte di quelle tracce trasparenti, trattenendole sui polpastrelli e permettendo loro di mescolarsi agli atomi del mio corpo, di diventare, a modo loro, parte di me. Amelia Parker non muove un muscolo, apparentemente incurante del mio gesto. Continua a fissare un punto indefinito al centro del mio costato, senza badare a ciò che io faccio, così le accarezzo una guancia, lentamente, strofinando il mio palmo ruvido contro la sua pelle morbida. Ancora nessuna reazione.

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