Capitolo 11

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19 Settembre 2017, Londra.

Nonostante lavorassi in quell'azienda solo da poche settimane, non mi ci era voluto molto per capire che il martedì fosse il giorno peggiore di tutti.

A quanto pare, infatti, i clienti sembravano ricordarsi dei problemi che la loro impresa aveva sempre in quel giorno, probabilmente perché il lunedì erano troppo impegnati a riprendere il proprio lavoro dopo il riposo del week-end. Questo significava, per me come per i miei colleghi, che di martedì c'era sempre un casino infernale: tutti andavano freneticamente avanti e indietro per concludere delle pratiche o per avviarne di nuove, i telefoni squillavano ininterrottamente dalle otto del mattino fino alle sei del pomeriggio, e l'ora di pranzo si riduceva a dieci minuti, se si volevano togliere di mezzo le pile e pile di fogli che riempivano la scrivania prima di tornare a casa.

Nel week-end dopo il matrimonio, avevo dovuto recuperare tutto il lavoro arretrato del venerdì e avevo mandato varie e-mail ai miei colleghi per ricevere il verbale della riunione straordinaria che c'era stata giovedì, che a quanto pare nessuno aveva: quando finalmente l'avevo trovato, però, avevo sperato di non averlo mai fatto, visto che esso aveva comportato altro lavoro da concludere prima di lunedì.

Negli ultimi giorni, quindi, non avevo avuto neanche un secondo libero, per non parlare del fatto che i miei orari di pranzo, cena e riposo erano completamente sballati: la settimana era appena all'inizio, ed io già non vedevo l'ora che arrivasse il prossimo week-end.

Fuori dalla finestra del mio ufficio il cielo era coperto da nuvole ed il vento soffiava piuttosto forte nonostante ci trovassimo appena alla seconda metà di settembre; era ancora il primo pomeriggio - o almeno lo era l'ultima volta che avevo controllato l'orario prima di immergermi nuovamente tra le pile di fogli che ricoprivano la mia scrivania - quando qualcuno bussò alla mia porta.

«Avanti.» dissi distrattamente e senza alzare gli occhi dal foglio su cui stavo appuntando le ultime azioni di un'azienda di cui mi stavo occupando.

Quando sentii la vocina bassa della segretaria del mio piano, sperai con tutta me stessa che non fosse venuta a dirmi che avrei avuto altro lavoro da completare.

«Signorina Davis, c'è una persona per lei.» disse Lauren, con voce ancora più sottile del solito.

Sollevai lo sguardo, incontrando i suoi occhi marroni quasi timorosi, le guance rosse che rendevano chiaro il suo... Imbarazzo?

«Di chi si tratta?» le chiesi, poggiando la penna sulla scrivania e rivolgendole ora tutta la mia attenzione.

Le sue guance, se possibile, sembrarono diventare di una sfumatura ancora di scura.

«Ehm, in realtà so che non posso lasciar passare le visite personali, però il signore è stato piuttosto convincente e...»

S'interruppe ed entrambe sobbalzammo quando una voce familiare, fin troppo familiare, risuonò acuta alle sue spalle.

«Scusa, come hai detto che ti chiami? Laura? Si, Laura. Ascolta. Non per darti fretta, ma ho davvero bisogno di parlare con la signorina Davis.»

Chiusi gli occhi, lasciandomi cadere la testa tra le mani mentre scuotevo la testa.

«Lo so, signor Tomlinson, ma devo comunque avvertire la signorina del suo arrivo prima di...»

«Okay tesoro, l'hai fatto, ora posso entrare? Grazie mille, sei stata gentilissima.»

Sollevai lo sguardo quando sentii Lauren continuare a ripetergli - inutilmente - che non avrebbe potuto concedergli più di dieci minuti mentre veniva spinta fuori dalla porta, ritrovandosela poi praticamente sbattuta in faccia.

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