°Capitolo 5°

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Erano le cinque e mezza del mattino, il sole stava sorgendo ed io mi ero appena svegliata.

Dalle persiane della porta finestra che dava al balcone si intravedevano dei sottili raggi di sole che creavano un lieve bagliore nella stanza.
L'atmosfera era soffusa ed io tirai un profondo sospiro ripensando alla giornata precedente.

Una serie di emozioni contrastanti mi pervasero.

Ero emozionata e allo stesso tempo intimorita, ero confusa e allo stesso tempo sicura, ero felice e allo stesso tempo dubbiosa.

Cercai di ricostruire quel frammento che avevo perduto, quel ricordo che non riuscivo ad estrapolare. Si faceva sempre più vicino, ma non riuscivo ancora a ricordare.

Si fecero le sei, preparai un té e lo sorseggiai lentamente godendo ogni singolo aroma. Chiusi gli occhi e respirai la piacevole brezza di quella mattina.

Da circa nove anni a quella parte vivevo in una villetta in campagna, una piccola tenuta nel verde. Stare nella natura mi faceva stare bene.

Ho vissuto due anni nell'appartamentino vicino all'ufficio, ma era diventato opprimente. Avevo bisogno di un posto tranquillo che mi facesse essere me stessa, dove nessuno potesse vedermi o spiarmi.

In città era più facile che ti ipnotizzassero, nei cittadini erano state inculcate delle regole molto rigide che gli imponevano di avvertire la sicurezza se avessero visto atteggiamenti sospetti come un sorriso o un lieve corrugamento.

L'ipnosi era una tecnica sconosciuta, nessuno, apparte Ambrose e i suoi collaboratori, sapeva del suo funzionamento, nessuno sapeva cosa venisse utilizzato di tanto macabro da oscurare i sentimenti.

Nessuno veniva ucciso o torturato e non eravamo in guerra, anzi, le morti erano scese repentinamente, le nascite erano aumentate, la povertà si era ridotta, le malattie erano diminuite e il malcontento generale era completamente svanito. Insomma un periodo di prosperità, ma si viveva nella costante paura della fatidica ipnosi, non sapevi quando né come ti avrebbero preso.

Fortunatamente Ambrose non era più al potere, scomparve misteriosamente circa otto mesi prima, l'incubo era finito, ma ancora non si era trovato il modo di risvegliare le persone dall'ipnosi.

Si fecero le sette, ero in ritardo, ma mi affrettai nel prepararmi e uscii di corsa.
Riuscii ad arrivare addirittura dieci minuti prima.

Fu una mattinata intensa, non solo dovevo iniziare a lavorare al mio progetto, ma dovevo anche sbrigare, oltre alle solite mansioni di routine, compiti a breve scadenza.

Riuscii a liberarmi alle quattordici, ero stata sei ore su fogli, documenti, articoli, reperti, libri e quaderni.
Sentivo il bisogno di scaricare tutta la tensione accumulata, così, tornata a casa,  tirai fuori dall'armadio una tuta bianca e grigia che non usavo da anni.

Mi piaceva molto imbattermi nel boschetto accanto alla tenuta per riflettere, meditare, pensare e respirare.
Spesso ci rimanevo nottate intere, avevo imparato a vivere in quella natura selvaggia.

Iniziai a correre, inizialmente innervosita, poi spensierata, ma non mi rendevo conto della distanza che stavo percorrendo.

Iniziò a piovere, mi trovavo in mezzo al bosco lontana metri da casa e senza nemmeno un ombrello.
Istintivamente e senza pensarci mi ero imbattuta in un piccolo rifugio di legno che stranamente non ero mai riuscita a notare nonostante tutti gli anni passati lì.

Entrai: un caminetto acceso riscaldava la stanza e dalla pentola a pressione sul fuoco usciva un sottile getto di vapore.
Era una casetta modesta ma molto accogliente, piena di dettagli intriganti, ben arredata e sistemata, il clima era avvolgente.
Nonostante la luce fioca, suscitava un profondo senso di tranquillità e pace.

Mi lasciai cadere sulla poltroncina di fronte al caminetto.

Posai gli occhi su un pupazzo appoggiato al tavolino che mi ricordava molto quello che avevo intravisto sul giornale, era lacerato, ma per qualche motivo i suoi abiti erano ancora in buono stato.
Prendendolo in braccio notai una piccola incisione sul lato del vestitino: "Jamila".

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