°Capitolo 22°

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"Jamila!", esclamò improvvisamente interrompendo il silenzio.

Si era ricordato, la macchina aveva funzionato!

Jamila si avvicinò e lo guardò emozionata.

"Quel giorno in cui non mi trovasti più al rifugio, gli scagnozzi di Ambrose mi presero e ti hanno cancellata dalla mia mente, ma mai nessuno ti ha mai cancellato dal mio cuore", disse Luke commosso.

Jamila iniziò a piangere silenziosamente, poi i due si abbracciarono.

Usciti dal magazzino aiutammo il signor Charles ad avviare un processo di clonazione e distribuzione della macchina in modo da renderla disponibile a tutti.

Quella sera uscimmo dal laboratorio estremamente entusiaste, in particolar modo Jamila, che stringeva forte la mano di Luke.

Durante il viaggio io ed Amelie preferimmo metterci qualche posto più avanti rispetto a Jamila e Luke in modo da lasciargli una certa intimità.

Mi appoggiai al sedile e iniziai a pensare a tutto quello che era accaduto in quel mese: avevo completato un importante progetto, avevo conosciuto il mio amato Mike, avevo incontrato le mie due sorelle Amelie e Jamila ritrovando man mano frammenti del mio passato, le avevo aiutate a ritrovare le loro dolci metà ed ora ero in viaggio verso una città sconosciuta dalla quale, qualche giorno dopo, sarei partita per la Nigeria alla ricerca della mia famiglia, ma il meglio doveva ancora arrivare.

Anzi, il peggio.

Per tornare il città dalla stazione prendemmo un taxi, tutto sembrava tranquillo, ma improvvisamente buio totale.

Al mio risveglio non riuscivo più a capire nulla, ero stordita, tutto intorno a me era sfocato.

Un velo di fumo annebbiava la vista.

Voltai lo sguardo e, all'interno del taxi ormai in frantumi, Jamila ed Amelie giacevano a terra, mentre Luke era stordito quanto me.

Il tassista riuscii a chiamare i soccorsi e ci portarono in ospedale, ma non sapevo se Amelie o Jamila fossero ancora vive.

Ero molto confusa, non capivo in che condizioni versavo, ma cercai nonostante tutto di riposare tentando di alleviare l'atroce mal di testa che mi perseguitava.

Al mio risveglio un'infermiera mi chiese come stessi e io le risposi che ero molto confusa ma tutto sommato stavo bene.

"Posso vedere gli altri?", domandai.

"Meglio di no signorina", rispose lei.

"Sono vive?"

"Sono entrambe in terapia intensiva"

"Sono in pericolo di vita?"

"Ancora si"

Le condizioni di quel momento mi impedirono di capire appieno ciò che stava succedendo, ma ero comunque molto turbata.
L'infermiera mi invitò a riposare, ma non fu facile riprendere sonno.

Cosa sarebbe successo da quel momento in poi? Amelie e Jamila si sarebbero riprese? Saremmo riuscite a salpare in tempo per la Nigeria? Saremmo rimaste in quella città ancora per molto?

Non riuscivo a darmi pace.

Eravamo in quella città da quattro giorni e saremmo dovute ripartire tre giorni dopo, tutti i piani stavano andando a monte.

Perché non avevo seguito il consiglio di Amelie di rimanere lì? Perché ho insistito a partire?

Iniziai a provare dei profondi sensi di colpa, era colpa mia, delle mie scelte, della mia testardaggine se eravamo finite tutte e tre in un ospedale a chilometri e chilometri di distanza da casa.

Fu in quell'istante che iniziai a capire quanto le scelte che prendevo con così tanta leggerezza influissero sugli altri.
Il regime mi, anzi ci, aveva tolto parte della ragione e le nostre vite piene di impazienti scelte e conclusioni affrettate ne erano la dimostrazione.
D'altronde dopo dieci anni di sentimenti repressi un po' di pazzia è anche naturale no?
La mia ingenuità mi aveva portata lì e piano piano mi si stavano aprendo gli occhi.

Passarono due giorni, ricominciai a camminare, ma ero molto indolenzita.

Fortunatamente Amelie si era svegliata e si stava riprendendo, ma Jamila non dava segni di miglioramento.

Davanti al vetro che lo separava da Jamila, Luke era a pezzi. Fisicamente era nelle mie stesse condizioni, ma moralmente era a terra.
Guardava Jamila con uno sguardo perso, malinconico.
Capii che anche lui era pervaso da laceranti sensi di colpa.

"è tutta colpa mia", confessò.

"È normale sentirsi in colpa, anche io ho momenti in cui il rimorso non mi dà pace, ma tutto si sistemerà, fidati", risposi.

Lui mi guardò accennando un sorriso e andammo a trovare Amelie che ancora non riusciva ad alzarsi in piedi.

Mentre ci incamminavamo verso la stanza di Amelie venimmo a sapere che la nave non era ancora stata riparata e si stimava che avremmo dovuto aspettare un'altra settimana.

Quella notizia mi sollevò, forse avevamo un briciolo di speranza, a patto che Jamila si fosse ripresa.

Amelie ci guardò disorientata, dopo averle spiegato cosa fosse successo annuì confusa, molto probabilmente non rammentava molto di quello che era successo da qualche giorno a quella parte, ma si ricordava sia di me che di Luke.

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