°Capitolo 7°

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Mi svegliai di colpo come per uscire da un incubo, mi guardai attorno, ero sdraiata sulla poltroncina di fronte al camino.
Mi strofinai gli occhi come per verificare che tutto ciò fosse reale.

Nel frattempo entrò Jamila dall'ingresso principale.

"Ben alzata Malika",affermò sorridendo.

"Buondì", risposi io ancora confusa.

"Che fai, non vieni?", rispose lei indicando una tavola imbandita.

Mi alzai lentamente, mi stiracchiai e le andai incontro.
Ero ancora scombussolata, ma non era nulla in confronto a ciò che mi aspettava.

Mi sedetti, sul tavolo c'erano molte pietanze, Jamila ne prese una e me la porse. Feci un respiro profondo, poi la mia attenzione si spostò verso la sua mano.
Lei lo notò e mi guardò nostalgica.

"Non ti ho dato modo di concludere la tua storia ieri, ma vorrei ancora sapere l'origine di quelle cicatrici"

"Bene, allora, i miei genitori non avevano soldi per farmi salpare, ma vendettero la nostra piccola casa oltre a tutto ciò che possedevano, per permettere a me, solo a me, di essere salvata.

Ricordo poco di loro, ma quel poco che ricordo è ben impresso nella mia mente.

D'altro canto come si può dimenticare l'amore, l'altruismo e lo spirito di sacrificio che mostrarono nei miei confronti?

Salii su una piccola barca, furono quattordici giorni di paura, due settimane di terrore, ogni giorno la barca immetteva sempre più acqua.
Riuscii miracolosamente ad arrivare in America, ma non era come immaginavo. Scesa dalla barca nessuno ad aspettarci, nessuno ad accoglierci.

Finii per ritrovarmi in uno dei più disagiati vicoli di una città a me sconosciuta, circondata da persone che mi evitavano e lanciavano occhiatacce a causa del colore della mia pelle.

Poi incontrai Sarah, una donna delle pulizie di un orfanotrofio, fu lei a portarmi lì.

Passarono undici anni, nessuno voleva adottarmi ed io rimasi sola in quell'orfanotrofio, poi chiuse.

Mi ritrovai di nuovo sulla strada, ma allora avevo quattordici anni.

Poi arrivai di fronte ad una villa enorme, c'erano molte persone: chi si occupava del giardinaggio, chi della pulizia della casa, chi della cucina.
Provai a suonare e i proprietari della villa, mossi da compassione, pensavo, mi assunsero come serva dandomi in cambio vitto e alloggio.

Non fu facile sopravvivere, non mi davano quasi mai cibo o acqua e mi inondavano di lavoro. In più erano molto crudeli: se sbagliavo anche solo una piccola cosa mi punivano severamente, ti lascio immaginare come... Ecco spiegate le cicatrici"

"E poi?", chiesi io con la curiosità di una bambina.

"E poi incontrai Luke, il servo personale del capo, beh diciamo, il maggiordomo.

Ci innamorammo l'uno dell'altra.
Fu lui a portarmi via da quel posto orrendo e a portarmi in questo rifugio.

Vivemmo insieme per anni, avevo ritrovato la felicità.

Poi un giorno scomparve misteriosamente, ma io rimango ancora qui, nella vana speranza che un giorno ritorni da me".

Sarei voluta rimanere per ore e ore a farmi raccontare per filo e per segno quell'avvincente storia, d'altronde era nella mia indole da giornalista, ma guardai l'orologio: erano le otto!

Ero sicura che quel giorno il signor Johnson mi avrebbe licenziata, non tollerava ritardi a meno che non fossero dovuti al lavoro, per questo, dopo aver salutato e ringraziato Jamila, scappai verso il Revival Palace.

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