°Capitolo 26°

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Cercai per un momento di dimenticare l'accaduto, cercai di fare finta di nulla.
Lei aveva ormai tramutato la sua rabbia in dispiacere per come si era comportata, ma si vergognava nel darlo a vedere.

Ci trovammo in una realtà a noi sconosciuta, solo Jamila si trovava a suo agio, quel contesto le era familiare.

Fortunatamente accanto al porto c'era un punto informazioni, una baracca di legno con il tetto di paglia.
Jamila scrisse su un pezzettino di carta il nome del villaggio in cui era nata e lo diede ad una gentile signora.

In quel paese era tutto così diverso, sembrava che nessuno fosse stato soggetto al potere di Ambrose. In effetti l'Africa non era sotto il suo controllo e la presenza di emozioni si notava, era tutto così vivace e colorato nonostante la povertà che distingueva quella regione.

Giungemmo al villaggio di Jamila a bordo di una specie di furgoncino decappottabile, lì sarebbe stato facile ritrovare la casa dei suoi genitori, se solo avessero ancora vissuto lì.

Appena arrivati infatti il villaggio era ormai devastato, le case erano distrutte e non c'era alcuna traccia di vita.

Jamila si mise le mani tra i capelli ed io le appoggiai delicatamente la mano sulla spalla.

"Tranquilla, li ritroveremo, ovunque siano", cercai di incoraggiarla.

"Ah si eh?", borbottò Amelie.

Non sopportavo quella situazione, non riuscivo a venirne fuori, ero agitatissima.

"Tranquilla Jamila", continuai io ignorando l'osservazione di Amelie, "siamo in Nigeria, nel tuo villaggio natale, non possono essere così lontani"

Lei si girò verso di me e annuì.

"Jamila?", sentimmo una voce chiamarci da dietro.

Jamila si girò di scatto.

C'era un ragazzo alto, magro, esile che sembrava avere una strana affinità con Jamila. Da quel poco che riuscii a capire da piccoli erano stati migliori amici.

Dopo una decina di minuti tra chiacchiere e spiegazioni varie, il ragazzo ci portò a piedi in un'enorme casa di cura dove sosteneva ci fossero i genitori di Jamila.
Eravamo lì, inesorabilmente di fronte al suo passato, Jamila era agitatissima.

Entrammo e bussammo.

Ci aprì sua madre che, senza bisogno di spiegazioni, la riconobbe subito, come se fosse stata in possesso di un sesto senso, un istinto materno che le permetteva di riconoscere sua figlia anche a distanza di più di vent'anni.

"La mia Jamila", disse asciugandosi le lacrime agli occhi.

Poi voltò lo sguardo verso me ed Amelie.

"Kapera!", esclamò ad Amelie che in quell'istante non vedeva l'ora di andarsene.

Allora i genitori di Jamila erano gli stessi di Amelie! Quel viaggio non era stato inutile come sosteneva, inconsapevolmente avevamo trovato anche le sue di origini!

"Amore, Malika, forza venite qui!", disse voltandosi verso l'interno della camera.

Dalla stanza uscirono un uomo alto e robusto dal viso roseo e una ragazza dalla pelle scura, ma fisicamente come me ed anche il suo carattere era affine al mio.

La mamma di Jamila ed Amelie, o forse dovrei dire Kapera, ci spiegò che Malika era riuscita a tornare in Nigeria una decina di anni prima e si stava prendendo cura di loro.

Ero molto felice per Jamila ed Amelie, feci trapelare un sorriso compiaciuto, ma sentivo di dover uscire e prendere una boccata d'aria, mi sentivo soffocare, così lasciai Jamila ed Amelie sole con la loro famiglia.

Mi misi a sedere su una panchina all'esterno della struttura e in men che non si dica mi raggiunse Amelie con gli occhi gonfi di lacrime.

"Sei arrabbiata con me?",chiese.

"No, sono solo un po' delusa", risposi, "so di avere dei difetti e so di aver fatto degli errori, ma questo non ti dà il diritto di insultarmi"

"Hai ragione e tu non hai fatto nulla", ribatté, "mi dispiace per come mi sono comportata, ti prego perdonami"

Io annuii e l'abbracciai, poi tornammo dentro raggiungendo Jamila, Malika e i loro genitori.

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