15.

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La cena si è rivelata un complotto nei miei confronti. Harry non scherzava di certo quando mi ha detto che avrebbe giocato ogni carta possibile per aggraziarsi mio padre. Ha iniziato ordinando il vino preferito di mamma – sapendo che avrebbe convinto papà a essere più morbido nei suoi confronti – poi ha casualmente iniziato a parlare di tatuaggi, del fatto che ha sempre voluto farli ma non ha mai potuto in primis per la professione che esercitava e soprattutto perché non ha mai trovato nessuno in grado di convincerlo. Inutile dire come papà abbia abboccato come un credulone e abbia iniziato a pavoneggiarsi del suo talento, dicendogli che ci avrebbe pensato lui a fargliene uno. Arrivati al secondo non poteva non rispolverare la storia sulla marcia nuziale e così si è beccato un altro sorriso d'approvazione di papà. Al dolce, tra una chiacchiera e l'altra, Harry riempie di complimenti le doti di padre di papà, dicendogli che ha cresciuto in maniera impeccabile – insieme a mamma – tre figli fantastici. Luna è spiritosa e disponibile, Lucas troppo divertente e io la gemma più preziosa su cui abbia mai messo gli occhi. Insomma, un adulatore fatto e finito. Sapevo fosse così perché l'ho visto fare la stessa cosa proprio con me, ma devo ammetterlo, non pensavo che avrebbe funzionato così bene con papà.
Giunti a casa, intorno alle undici e mezza, papà mi ferma in corridoio mentre gli altri si dirigono nelle loro stanze per la notte. «Lo so che ha cercato di entrare nelle mie grazie ma sai il vero motivo per cui ci è riuscito qual è? Anzi, sono due in realtà.»
Sorpresa, mi faccio più vicina. Mi sembrava troppo strano che avesse abboccato con così tanta semplicità dopo essere svenuto il giorno in cui abbiamo informato tutti che ci saremmo sposati. «Ti ascolto, papi.»
«La tenacia. Ho apprezzato come non si sia fatto intimidire dal primo approccio. Vuole che lo apprezzi perché tu lo desideri. E questo mi porta al secondo motivo: ci tiene a te, glielo leggo negli occhi e questo gli fa onore» spiega, divertito.
È vero, il dettaglio che rende tutto così credibile e vivido è la nostra amicizia. Harry è mio amico, ci tiene davvero a me e mi vuole bene. Questo vale più di qualsiasi finzione.
Sorrido e stringo papà in un abbraccio. «È una brava persona, papà, te lo assicuro.»
Lui annuisce e poi mi dà una lieve spinta. «Adesso vai, domani mattina devi portare il pupo alla Statua della Libertà e poi siete di ritorno. Non voglio che siate stanchi per il viaggio» dice. So benissimo cosa si nasconde dietro le sue parole e sono d'accordo, c'è bisogno di essere molto vigili in autostrada, soprattutto sulla tratta che percorriamo noi. Partiremo subito dopo pranzo per evitare di guidare al buio. Ogni volta che c'è mio padre al volante mi si forma un nodo in gola che a volte è talmente stretto da non lasciarmi respirare, perciò, inizio i miei esercizi di respirazione e mi tranquillizzo. Andrà tutto bene anche stavolta. Come sempre.

Il giorno successivo, domenica, io e Harry usciamo presto di casa in modo da poter fare un giro per negozi e avere il tempo di arrivare al The Battery, il parco dove prenderemo il traghetto per arrivare alla Statua della Libertà. Ci vogliono un'ora e quaranta per arrivare, perciò, allunghiamo il passo e intorno alle undici arriviamo all'entrata del parco.
«Ti è piaciuta ieri sera la vista dell'Empire State Building?» domando mentre continuiamo a camminare.
«Molto. La prossima volta, però, ci saliamo. Voglio vedere la vista dall'alto» dice.
«Certo! Io ci sono stata solo una volta perché soffro di vertigini, ma non potevo farmi scappare l'occasione. È divino e terrificante allo stesso tempo» rabbrividisco facendolo ridacchiare.
«Ehi, è lì che dobbiamo fermarci?» indica lo stand all'aperto.
«Sì. Dobbiamo passare il controllo di sicurezza e far vedere loro i biglietti che abbiamo già prenotato. E mi raccomando, svelto a salire perché mirano tutti al ponte superiore aperto.»
Harry annuisce. Passiamo i minuti successivi ai controlli, una volta superati percorriamo il breve sentiero e arriviamo al traghetto. Quando saliamo Harry si guarda ovunque, è adorabile il fatto che non sia mai riuscito a fare cose semplici come queste. Con i suoi jeans, la felpa slacciata e il cellulare alla mano sembra un vero e proprio turista. Il cappellino con la visiera al contrario lascia svolazzare alcune ciocche sottili dei suoi capelli rendendolo incredibilmente attraente. La pianto di fissarlo come una maniaca e afferro la sua mano. C'è troppa gente, non voglio rischiare di perderlo tra la folla. Harry ricambia la mia stretta mentre lo trascino sul ponte e attendiamo che il traghetto inizi a muoversi.
«Questo si ferma anche a Elli's Island, ma non dobbiamo scendere se non ti va» lo informo.
«Ho male ai piedi, penso che stavolta passerò» borbotta.
«D'accordo, tesorino» lo prendo in giro.
Ben presto cominciamo la nostra traversata, accerchiati da turisti di ogni genere. È solo quando arriviamo a Liberty Island e dobbiamo scendere che mi rendo conto di non aver mollato nemmeno per un secondo la sua mano. Sebbene sia una situazione nuova non mi disturba così tanto quanto credevo, forse perché continuo a ripetermi che non c'è niente di male, non lo so. La sua stretta è calda e confortante, e poi... anni fa capitava anche a Devon di tenermi per mano. Certo, quando dovevamo percorrere delle stradine più ripide – quindi come sostegno – o quando andavamo al parco giochi, ma... è la stessa cosa, no? Harry è al suo a livello, giusto?
«Wow, ma è... è... più piccola di quanto mi aspettassi» sussurra Harry chinandosi accanto al mio orecchio.
Ignoro i brividi che il suo fiato mi procura e sbuffo una risata. Chissà perché, me l'aspettavo proprio un'uscita del genere. «Davvero? È cosa ti aspettavi di preciso?» chiedo curiosamente.
«Di sicuro non una mammoletta alta novantatré centimetri, Rora» contesta. «Andiamo, potevano almeno arrivare a cento. Centimetro più, centimetro meno» bofonchia facendomi ridere ancora una volta.
«Guarda che non puoi chiamare la Statua della Libertà mammoletta, vichingo» lo riprendo giocosamente.
Harry scatta una foto alla statua e scuote il capo. «Sì, grazie Francia per avercela regalata in segno di amicizia e rispetto bla bla, te ne saremo per sempre grati bla» alza gli occhi al cielo.
Stavolta non riesco a soffocare una sonora risata. «Non... non dimenticare la commemorazione della dichiarazione d'indipendenza del 1776.»
«Giusto. Tu devi saperne a bizzeffe di cose sulla signora verde catrame, vero?» indaga mentre gironzoliamo un po'.
«Qualcosina, ma nulla che ti faccia cambiare idea temo. Torniamo al traghetto? A breve riparte» faccio un cenno con il mento verso quest'ultimo.
«Certo.»
«E... Harry» lo richiamo molto divertita. «Non mi è sfuggita la parte in cui dici 'avercela' e 'te ne saremo per sempre grati', sai?»
Lui borbotta qualcosa che non riesco a comprendere e rilascia un profondo sospiro. «Mi esercitavo per quando diventerò un cittadino americano. Dio, non posso crederci. Devo proprio essere pazzo di te, eh, futura mogliettina?» strattona la mia mano trascinandomi sul traghetto.
Ebbene sì, le nostre mani sono ancora intrecciate e lui non dà segni di voler allontanarsi. Forse si tratta di pratica, di essere più fisici davanti agli altri – anche se per il momento non c'è proprio nessuno che conosciamo.
Le sue parole mi colpiscono particolarmente; quel giorno ho sentito Avery chiedergli di Londra, che fine avesse fatto il suo amore per la patria e lui le aveva risposto che era a causa mia che si sarebbe trasferito a Boston. Adesso non posso far altro che domandarmi se è davvero convinto della sua scelta. Non posso forzarlo a stare qui se non lo desidera davvero, ma allo stesso tempo, non posso lasciare Boston.
«Ehi» lo richiamo quando prendiamo posto su una panchina vuota.
«Sì?» mi guarda.
«Tu sei certo di voler stare qui, vero? Credo sia l'unica cosa di cui non abbiamo davvero parlato. Sei molto attaccato al tuo paese e non voglio che tu debba stare male qui. Insomma, quello che sto cercando di dire è che sei ancora in tempo per mollare tutto se... se volessi cercarti una fidanzata a Londra, lo capirei» sospiro. «Non ci avevo riflettuto sul serio fino a poco fa. Io non posso lasciare Boston per molte ragioni, ma tu...»
«Io niente» mi ferma. «È vero, amo con tutto me stesso Londra, sono inglese fino al midollo e fino all'anno scorso, quando sono venuto in città per parlare con Avery, pensavo che sarei morto in Inghilterra, ma le cose sono cambiante, Ro» accarezza piano la mia mano. «Boston mi piace e sto- niente...» scuote il capo, come se mi stesse per rivelare qualcosa che non devo sapere.
Aggrotto la fronte, curiosa al massimo. «Stai?»
«Niente, non posso ancora parlarne» liquida la cosa. «Dicevo, mi piace l'America e mi sto abituando. Tu, Avery e persino quello scorbutico di Devon mi piacete molto, anche la famiglia pazza che vi ritrovate mi fa sentire accolto. Quindi sì, sono certo di voler stare qui. E poi, rende tutto ancora più solido agli occhi di mio padre, no? Trasferendomi è chiaro che le mie intenzioni con te sono più che serie.»
«Sì. Sì, hai ragione» annuisco, il petto più leggero. Non lo sto trattenendo, è qui di sua spontanea volontà e vuole rimanerci. Questo mi basta per lasciarmi la vicenda alle spalle e godermi il tragitto di ritorno. Al parco c'è la metro, utilizzeremo quella per tornare perché non ho alcuna intenzione di camminare ancora per quasi due ore.
«Pronta per tornare a casa?» domanda con un dolce sorriso sul volto.
«Hm-hm. Ma prendiamo la metro» lo avverto.
«Oh, quello era scontato. Non ho la minima intenzione di invischiarmi a Union Square all'ora di pranzo. Potremmo non uscirne più.»
Ridacchio e concordo. Non vedo l'ora di tornare e rimpinzarmi di cibo prima di metterci in viaggio per Boston. Spero tanto di riuscire a fare un pisolino.

𝐀𝐔𝐑𝐎𝐑𝐀 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟐]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora