Quattro: Steve

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L'odore di pancake si diffuse nella stanza, facendogli riprendere coscienza. Aprì occhi incredibilmente azzurri su di un soffitto di legno scuro. Era in un letto a una piazza, comodo e morbido. C'era profumo di lenzuola pulite, asciugatesi al sole. Anche i suoi capelli sembravano lavati e vaporosi, lo stesso valeva per i suoi vestiti. La luce filtrava da una finestra e la camera in cui si era risvegliato era modesta, con un tavolo, una sedia e una piccola libreria ben fornita in un angolo.

Steve corrugò la fronte, spaesato. Il gesto gli fece sapere che portava una fasciatura attorno alla testa. La toccò con le dita, chiedendosi come era finito in un bel letto comodo e lavato di fresco. L'ultima cosa che ricordava era la foresta. E quei due ragazzi.

Saltò su dal materasso, come se avesse preso la scossa. Combatté la vertigine che lo assalì e proseguì verso la porta socchiusa, seguendo il profumo dei pancake giù per le scale e lungo un corridoio dall'intonaco bianco fino a una cucina. C'era una donna nella stanza, che gli dava le spalle. Era abbastanza robusta, con lunghi capelli neri raccolti in un elegante chignon sulla nuca e un grembiule a volant gialli. Cucinava, fischiettando tra sé.

Steve inclinò la testa da un lato, poi si decise a entrare. Fece rumore con i piedi nudi sul pavimento per allertarla della sua presenza ed evitare che si spaventasse. La donna si voltò verso la porta. Era di mezza età con un viso paffuto e materno. Gli sorrise quando lo vide e delle graziose ragnatele di rughe si aprirono attorno ai suoi occhi grigi.

«Buongiorno! Tu devi essere Steve.» disse allegra, «Vuoi qualcosa da mangiare?» gli chiese, indicando con il mento il tavolo già apparecchiato.

«Sì, signora, buongiorno a lei.» rispose, ricambiando la cortesia, «In effetti sto morendo di fame.» confessò imbarazzato, prendendo posto a capotavola.

La donna sorrise soddisfatta e poggiò un piatto con una pila di pancake appena fatti tra la bottiglia del latte e quella del succo d'arancia, «Non fare complimenti!» lo invitò, aggiustando la tovaglia a scacchi bianchi e rossi.

Steve la osservò, incapace di resistere al suo sorriso. Il viso rotondo di quella donna era in grado di renderti felice solo guardandolo. Aveva un innato calore, che irradiava conforto.

«Evan! Sarah! Il vostro amico è sveglio!» urlò verso la porta dalla quale era entrato.

Passi rapidi seguirono quel richiamo e dall'uscio fecero il loro ingresso i due ragazzi che lo avevano soccorso. Ora che li vedeva a mente lucida, si accorse di quanto si somigliassero tra loro e con la donna che aveva cucinato. Fece per alzarsi in segno di rispetto, ma si ritrovò imbambolato a fissare il giovane dai capelli corvini.

Evan lo ricambiava con uno sguardo attento. Sembrava scrutarlo con la curiosità dello scienziato e la preoccupazione di un padre il giorno del ballo di fine anno. Pareva interessato alla zazzera di capelli (castano chiaro tendente al biondo: ora che era pulita era tornata al suo vero colore) adornata dalla benda medica e agli occhi di un azzurro innaturale.

Steve si schiarì la voce, ma non riuscì a offrire altro che un sorriso timido. Evan si scosse, vergognandosi di essere rimasto a fissarlo tutto quel tempo come un imbecille, e si avvicinò al tavolo. Afferrò la sedia alla destra di Steve e si accomodò.

«Ciao, Steve. Come ti senti?» gli chiese.

«Meglio.» annuì il ragazzo, mentre Sarah si sedette accanto al fratello.

«Mi fa piacere.» disse Evan, con un sorriso stiracchiato.

Steve si tormentò il labbro inferiore tra i denti, giocherellando agitato con le dita. Sembrava voler condividere cosa lo affliggesse, ma non sapere come introdurlo. Dopo che la madre chiamò il marito, che ancora non era arrivato, una seconda volta, il ragazzo si decise ad aprire la bocca.

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