Trentanove: Chiazze rosse

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Espen aprì gli occhi. Ansimò spaventata, quando vide Nika di fronte a sé, ma si ricordò che la Marchiata non era più sua nemica (non al momento almeno). Aggrottò la fronte, facendo forza sulle mani per rialzarsi e staccando la guancia dal pavimento freddo. Si guardò attorno. Erano cadute dentro lo squarcio che Nigel aveva aperto nelle astronavi. Il fatto che la ragazza ancora sfoggiasse la sua coda da diavolo le fece intuire che qualcosa fosse andato storto nel processo di formazione della Chiave e sperò che Sarah Cunningham stesse bene.

Una leggera brezza portò il suo sguardo all'insù. Il soffitto della nave madre mancava, scoperchiato come lo era stato quello della loro base la volta che erano stati invasi. La ragazza deglutì, ringraziando di non essere stata sbalzata fuori. Abbassò gli occhi e si ritrovò di nuovo grata: lei e Nika erano cadute attraverso il pavimento, che si era accartocciato e spezzato, scoprendo una struttura di reti metalliche e tubi sottili, che avrebbero potuto impalarle o ferirle. La stanza in cui erano finite era semibuia, illuminata di tanto in tanto dalle scintille che scoppiettavano dai cavi recisi.

Nika si alzò, attirando la sua attenzione. Barcollò e quasi ricadde, ma riuscì a mantenere l'equilibrio.

«Stai bene?» s'informò Espen.

«Sono viva.» tossì lei, «Tu?»

Espen si tirò su. «Uguale.» disse, ma era un eufemismo. Le tremavano le gambe. Sentiva un sapore metallico in bocca e temeva di essersi morsicata la lingua cadendo. Le faceva male un polso, che sperò non fosse rotto. La sua ex nemica non era messa meglio. Sembrava una reduce che scappava da una guerra, con la polvere che le imbrattava il viso dal trucco sbavato, i capelli spettinati e macchiati di sangue e la tuta strappata in più punti. Le dispiaceva vederla così, anche se la sporcizia non aveva minato la sua naturale bellezza - cosa che la riempiva di invidia. Nonostante fossero avversarie, Espen aveva sempre nutrito una sorta di ammirazione per la raffinatezza della nemica.

La ragazza si scosse, quando Nika la chiamò. Si era talmente persa a contemplarla, che non aveva sentito cosa le aveva chiesto.

«Ho detto che dovremmo cercare gli altri.» ripeté.

«Sì, hai ragione.» concordò Espen, imbarazzata per l'accaduto. Uscirono dalla stanza in cui erano cadute e si ritrovarono in corridoio. L'oscurità era più pronunciata dato che i neon erano stati quasi tutti distrutti; la giovane chiamò i suoi amici, ma nessuno le rispose. Stava per urlare di nuovo, quando Nika urlò.

«Ehi, qui c'è qualcuno!» chiamò, avvicinandosi a una fenditura nel muro del corridoio. Si chinò e sbirciò all'interno della sala illuminata da un neon solitario.

«Vedi chi è?» Espen le si accucciò accanto.

«Sono Charlize e Hideki.»

«Come stanno?» inquisì la ragazza, che aveva notato, oltre al sollievo, una punta di amarezza nella voce della donna.

«Charlize è immobile sul pavimento.» Nika si sporse con attenzione attraverso la fenditura, «Accidenti! Non ha le mani nell'acqua.»

«Credi che...» Espen non terminò la frase, ma osservò la schiena dell'altra. Le sue spalle si incurvarono sotto al peso delle possibilità, per poi drizzarsi all'improvviso.

«Ehi, Hideki!» sibilò secca.

L'hacker si era fermato e fissava incuriosito le due donne attraverso il buco. Sospirò come un bambino che avesse visto una fata e la indicò.

«Nika!» esclamò.

Lei sorrise forzatamente e annuì. «Sì, bravo, sono io! Vedi Charlize?» chiese, accennando alla sirena stesa dietro di lui.

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