Cinque: Il canto della sirena

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Il giorno seguente, Evan ricevette una sorpresa quando, verso le quattro, uscì dalla scuola elementare. Appena oltre il vialetto d'ingresso, Steve passeggiava nervoso con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Distoglieva e portava gli occhi azzurri sul portone dell'istituto come se avesse voluto entrare, ma avesse paura di farlo. Evan sentì le labbra incurvarsi all'insù. Scese i gradini, sotto gli sguardi curiosi dei suoi compagni di band, e sventolò una mano verso il ragazzo.

«Steve!» esclamò.

Steve sobbalzò, preso in contropiede dall'urlo. Deglutì e cercò di riacquistare una parvenza di calma. «E-ehi!»

«Sei venuto!» continuò Evan con un'espressione di rincretinita allegria.

Il giovane sbuffò una risata e indicò i ragazzi che si salutavano davanti alla porta (e che ancora li osservavano incuriositi), «Sì, ma credo che sia tardi.»

A Evan - che non aveva ancora smesso di fissarlo inebetito - ci volle un secondo di più per connettere. «Ah, non preoccuparti per quello. In fondo, c'è sempre domani!» finì, facendogli l'occhiolino.

Avvertì subito il bisogno di sbattere la testa contro al muro. Che diavolo gli era saltato in testa di dire?! Stava forse flirtando con Steve? Desiderò rimangiarsi quello che aveva detto, quando sul viso del ragazzo dagli occhi blu sbocciò un tenue rossore all'altezza delle guance.

«A-allora è meglio che domani metta la sveglia prima.» disse infine Steve, balbettando più volte e terminando con un sorriso timido.

Evan tirò un sospiro di sollievo. Tuttavia, Steve evitava di incrociare il suo sguardo e lui si sentì in colpa per aver causato quell'imbarazzo. Deciso a rimediare, si schiarì la voce.

«Be', se non hai altro da fare, puoi accompagnarmi a casa?» propose, riaggiustando la chitarra elettrica sulla spalla, «Sarah oggi è bloccata in centro e devo tornare a piedi.»

Steve apparve visibilmente sollevato. «Con piacere.»

Trascorsero in quel modo le due settimane successive. Evan si recava alle prove dalle dieci alle quattro e Steve lo andava a prendere per riaccompagnarlo a casa. Quel primo giorno in cui avevano fatto così, la signora Cunningham aveva invitato il giovane dagli occhi azzurri a fermarsi a cena e la cosa era entrata a far parte della loro routine. Prove, passeggiata di ritorno con Steve e cena tutti insieme. Nessuno degli amici del ragazzo parve lamentare la sua assenza e l'invito all'agriturismo si estese presto anche alla notte.

Steve era diventato in fretta amico sia di Sarah che di Evan. Si trovava bene con loro.

La sera prima del concerto, il 3 di luglio, Evan aveva l'aspetto di uno zombie appena resuscitato. Era stanco e spossato per le prove e con una crescente ansia da palcoscenico. Camminò finché le sue ginocchia non urtarono i braccioli del divano, grugnì e si lasciò cadere come un albero abbattuto, affondando la faccia nel cuscino.

«Sei morto?» lo chiamò Sarah dalla cucina, ridacchiando.

«Mmmm.» fu tutto ciò che ricevette come risposta, pure ovattata dal guanciale.

«È morto.» sghignazzò Steve, sedendosi accanto a lui sul divano.

Le loro risate cullarono Evan in un sonnellino, ma, prima che potesse scivolare del tutto nell'oblio, Sarah lo svegliò. Poggiò un paio di Coca-cola fresche sul tavolino da caffè, provocando un rumore acuto che per miracolo non spaccò il vetro delle bottiglie e che ebbe l'effetto di una scossa elettrica per il ragazzo sdraiato sul sofà. Sarah sorrise innocente all'occhiataccia torva e accusatoria che le lanciò il gemello.

«Perché non andate al Lago come facevate tu e papà?» propose.

Evan roteò gli occhi e si rimise a faccia in giù nel cuscino. Steve, invece, alzò un sopracciglio, chiedendo implicitamente alla ragazza di spiegarsi meglio.

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