Dieci: Sogno o realtà?

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Il vento accarezzò il suo volto con una mano fresca e tenera. Le iridi di Evan si muovevano spasmodiche sotto le palpebre, come se il ragazzo fosse sprofondato in un bel sogno. Le sue labbra si incurvarono all'insù, quando udì una musicale risata accanto a sé. Aprì gli occhi e subito il sole battente lo accecò. Gemette e si portò una mano al viso per schermarlo. Quando quell'insistente pallino psichedelico lasciò la sua vista, si girò da un lato.

Steve era reclinato sulla sdraio accanto a lui, all'ombra dei pini nel giardino dell'agriturismo. Rideva e giocava con un gatto nero dagli occhi gialli. L'animale era sdraiato sulle ginocchia del giovane e muoveva le zampe per catturare le sue dita lunghe. Evan sorrise e un dolce calore gli si spanse nel petto.

D'un tratto, quella tiepida sensazione si gelò.

Qualcosa non andava. Evan aveva fatto un sogno strano. Non ricordava bene i particolari, ma non aveva dimenticato le forti emozioni di paura e pericolo che aveva provato. Steve era stato ferito, questo lo rammentava. Lui stesso era stato ferito. E avevano passato la notte del Quattro Luglio a fuggire come volpi braccate. Come erano tornati sani e salvi a casa?

L'urlo di Steve ridestò Evan dalle contemplazioni.

Il gatto era fuggito dentro l'agriturismo, mentre il suo amico si teneva la fronte. Il giovane concluse che l'animale l'avesse graffiato, stanco del gioco. Fece per vedere se stava bene, ma, appena Steve rialzò il capo, Evan si bloccò.

"È un graffio di artiglio.", osservò una voce nella sua mente. Il ragazzo si accigliò. Il gatto aveva appena graffiato Steve, cosa doveva aspettarsi? Non sapeva perché sottolineare un fatto così ovvio, né comprese per quale ragione gli tornò alla memoria la prima volta che si erano incontrati. Anche allora Steve era ferito alla fronte. Ma non era stato un gatto a graffiarlo.

Evan ispezionò meglio la lesione e si agitò. Il graffio era profondo e sanguinava, molto più di quanto si sarebbe aspettato. Più che il graffio di un artiglio, sembrava la pugnalata di un coltello. Aprì la bocca per chiamare Sarah, ma Steve si alzò. Gridò un nome che Evan non riconobbe e corse dentro l'agriturismo, forse sulle tracce del gatto.

Evan gli corse dietro, quasi rovesciando la sdraio. Salì i gradini d'ingresso, quelli larghi, grigi e adornati da vasi di gerani rossi e rosa. La porta a vetri si era richiusa con un tintinnio argentino. Il giovane afferrò la maniglia e spinse. L'uscio si riaprì, ma, quando il ragazzo lo attraversò, non si ritrovò nell'atrio dell'albergo.

La vista era completamente cambiata. Al posto del parquet e del bancone della reception c'era uno strano pavimento metallico. La brunitura, per nulla dissimile a quella che si praticava sulle armi dell'antichità, non lasciava che brillasse sotto le luci al neon (sempre che lo fossero, di certo lo ricordavano) del soffitto.

Evan si voltò, pronto a tornare in giardino, ma la porta da cui era entrato era svanita nel nulla. Alle sue spalle c'era solo una parete argentata. Deglutì e chiamò Steve con una voce flebile e spaventata, ma nessuno gli rispose. Facendosi coraggio, s'incamminò per il lungo corridoio vuoto.

Girando l'angolo in fondo, vide tre figure al di là di una porta scorrevole, aperta su una larga stanza piena di computer e finestre. Evan aveva visto abbastanza repliche di Star Trek per capire che si trattava della plancia di un'astronave, o di ciò che lo ricordava.

Vi si avvicinò cauto. Le figure divennero leggermente più nitide; aveva l'impressione che due fossero femmine e uno maschio. Una delle donne reggeva una piccola scatola. La luce era troppo debole per capire chi fossero. Urlavano qualcosa in una lingua che non riusciva a comprendere, ma che era dura e gutturale: gli ricordava il tedesco, o, in alternativa, il klingon.

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