1. Il segreto di Simone

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Video meliora proboque. Deteriora sequor.

Ovidio


La rete si gonfiò e per un lungo istante sul campo calò un silenzio irreale.

Simone fissò incredulo la palla mentre cadeva sul fondo della porta.

Un difensore emise un grido scomposto e l'esultanza del pubblico investì il campetto come uno tsunami.

Il giocatore che aveva appena gridato prese Simone per le spalle e lo scosse, guardandolo negli occhi con incredulità mista a gioia, poi venne travolto dai compagni in un abbraccio collettivo.

La loro divisa era a strisce bianche e blu. Quella di Simone rosso granata, con le maniche azzurre.

Erano due anni e quattro mesi che non segnava un gol. Aveva immaginato tante volte il momento in cui sarebbe riuscito di nuovo a insaccare la palla in rete. Solo che nei suoi sogni la rete era quella avversaria.

L'arbitro fischiò tre volte.

Era finita. L'A.S. Castrum aveva perso. Per colpa sua.

I tifosi avversari applaudivano, dalla gradinata e dal bordocampo. Simone captò uno sconsolato «figura di merda» alle sue spalle.

Aveva bisogno di rassicurazione. Aveva bisogno di qualcosa di bello. Perciò si guardò intorno in cerca di Edoardo.

Ma quando incrociò il suo sguardo non trovò quello che cercava. Non c'era odio nei suoi occhi chiari, non c'era rabbia. C'era solo compassione. Una triste, insostenibile compassione.

Simone avvertì le proprie guance farsi incandescenti e voltò la testa sopraffatto. Quanto sarebbe meglio, pensò, quanto sarebbe meglio se mi odiasse. Come tutti gli altri.

Immobilizzato dalla vergogna perse qualche secondo a spazzolare via il terriccio dai pantaloncini. Si tolse un ciuffo d'erba appiccicato al ginocchio, pinzandolo tra pollice e indice.

I giocatori in bianco-blu si abbracciavano felici. Quelli in maglia granata si dirigevano stancamente all'uscita.

Sembrava così facile...

Voleva solo spazzarla in calcio d'angolo.

Sul 2-2, al novantatreesimo, defilato sulla destra dell'area, con lo specchio della porta ridotto a un rettangolo strettissimo e l'attaccante avversario che accorreva da sinistra. Era un intervento semplice, quasi stupido, ma importante. Era la sua occasione per riscattarsi, per farsi perdonare dai compagni tutti gli errori compiuti durante la partita.

Ma il suo piede aveva colpito quel maledetto pallone nel punto sbagliato e nel modo sbagliato, facendolo schizzare in una direzione totalmente imprevedibile. In direzione di quello stretto rettangolo che era la porta da quella posizione defilata. Il portiere fuori posizione, i difensori a marcare gli altri attaccanti.

E il pallone era finito in rete.

Due a tre.

Simone sospirò ripercorrendo mentalmente l'errore senza riuscire a capire cosa fosse andato storto nella sua coordinazione, e infine si decise ad avviarsi anche lui verso l'uscita, a testa bassa.

Aveva fatto solo pochi passi, quando per poco non cadde a terra a causa di una spallata. Qualcuno gli sibilò all'orecchio: «Grazie, merdina» e lo superò.

Vide allontanarsi davanti a sé l'inconfondibile schiena grigia con ilnumero 1 di Paolo. Oggi non l'avrebbe biasimato se negli spogliatoi avessedeciso di prenderlo di mira insieme al suo inseparabile gruppetto di bulli. Iltrio dei beta, come li aveva soprannominati mentalmente Simone: Paolo, portiere, Stefano, mediano, e Federico, difensore centrale. Sottoposti e devoti al capo bullo alfa supremo, nonché capitano della squadra: Manuel, centravanti.    

L'ultimo desiderio - Manuel & SimoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora