Prologo

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Boston, dieci anni prima.

Perché, di punto in bianco,
i fiori e la morte
si tengono per mano?

Mi avvicinai ancora di più al mare, lasciando che le onde mi lambissero i piedi nudi. Sentivo il freddo penetrare nelle ossa, ma non mi importava, lo facevo ogni volta che mio padre mi puniva perché volevo provare qualcosa di diverso, qualcosa di più intenso delle sue sporche mani addosso e sperare che l'ansia non mi divorasse.

Guardai il cielo cupo e minaccioso, mentre un tuono risuonava nelle mie orecchie all'improvviso. Era come se la natura stesse urlando la sua rabbia e il suo dolore insieme a me, e mi volesse spaventare. Ma io ero immune a tutto ciò.

Non avevo paura di niente, nonostante avessi solo dieci anni; dentro di me bruciava un fuoco che niente poteva spegnere, dentro di me c'era un incendio che devastava più forte di qualsiasi tempesta.

Non avevo paura di niente, perché sapevo di poter affrontare qualsiasi cosa.

Non avevo paura di niente, se non di me stesso.

Mi spinsi ancora più avanti, fino a quando l'acqua mi arrivò alle ginocchia. Sentivo la pelle rabbrividire, come se anche il mare stesso volesse lasciare un segno indelebile su di me. Era una sensazione strana, ma allo stesso tempo liberatoria. Sapevo che alla mia età non avrei dovuto nemmeno pensarle certe cose, eppure io ero lì a cercare il coraggio di farla finita.

Non sopportavo più di respirare, l'aria era sporca e pesante.

Cosa si prova a saltare nel vuoto?

Le onde si infrangevano con violenza e strisciavano sulla riva per poi ritirarsi, spruzzando schizzi d'acqua salata dappertutto. Sembrava un mostro assetato di potere, pronto a divorare tutto ciò che gli si avvicinava, e prima o poi avrebbe avuto il coraggio di prendersi anche me e liberate finalmente la mia piccola anima dannata.

Mi rispecchiavo in quell'oceano oscuro e tempestoso, anche io ero lo stesso. La mia personalità era intensa, selvaggia e imprevedibile. Gli altri bambini mi evitavano, avevano paura di avvicinarsi, e in un certo senso era quello che desideravo.

Essere temuti mi faceva sentire potente, mi faceva sentire al di sopra degli altri. Non volevo che nessuno si avvicinasse troppo, perché temevo che potessero scoprire la mia vulnerabilità, i miei dubbi e le mie paure. Era più facile mantenere una distanza di sicurezza, per proteggermi da eventuali delusioni o ferite. Era quello che mi aveva insegnato mia madre, non farsi ferire da nessuno.

Ma a volte, nel profondo del mio cuore, desideravo che qualcuno avesse il coraggio di avvicinarsi. Desideravo che qualcuno vedesse oltre la mia facciata dura e impenetrabile, che riuscisse a comprendere la complessità che si nascondeva dentro di me e mi aiutasse a riparare i brandelli della mia anima.

Ero consapevole che la mia paura di essere ferito mi stava isolando dal mondo, mi stava privando di connessioni significative. Ma era difficile abbassare le mie difese, era difficile mostrare la mia debolezza.

Quindi, continuavo a essere come quel mare in tempesta, in modo da mantenere una distanza sicura dagli altri.

Nessuno si gettava tra le onde, a meno che non volesse farsi male. Giusto?

Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal suono delle onde e dal rumore di un altro tuono. Era l'unico modo che avevo per respirare, in armonia con la natura selvaggia che mi circondava.

E così, rimanevo lì, immobile, mentre il mare continuava a urlare la sua furia come se la tempesta che lo stava dominando fosse colpa mia.

Mi portai le dita sul taglio al labbro inferiore, sentendo il bruciore che si diffondeva. La salsedine dell'oceano penetrava nella ferita, intensificando la sensazione di fastidio. Ma non mi importava. Era un dolore che mi faceva sentire vivo, mi faceva sentire parte di qualcosa di più grande. Mi piaceva quel piccolo ed insignificante male, mi faceva sentire diverso dagli altri.

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