Capitolo 69 - Segreti negli slip

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La suoneria dello smartphone rimbombava nella mia testa.

La fase REM è quella del sonno più profondo, ma il cervello è incredibilmente attivo, per questo è anche chiamata fase del sonno paradosso. Emette onde Theta, Alpha e Beta e gli occhi si muovono frenetici come volessero seguirne i pensieri. Uno di quei pensieri mi riguardava: volevo che la maledetta suoneria smettesse al più presto.

Mi resi conto di nutrire un odio insano nei confronti di over the horizon. La suoneria esisteva da oltre dieci anni, da pochi mesi era sul mio Samsung ed erano già troppi.

La mia vista appannata riuscì a mettere a fuoco il display e vidi il nome di Elisabetta Farnese. "Pronto?"

"Ciao... stavi dormendo?"

"A volte mi capita."

"Sono solo le 18."

"Sì, ma erano 22 ore che non dormivo."

"Mi dispiace, mi avevi detto di..."

"Nessun problema."

"Dove possiamo vederci? Devo farti vedere una cosa."

"Vengo io da te."

"Ricordi dove abito?"

"Ricordo anche che ci sono già stato."

È vero e non vuoi sapere...?"

"No."

"Ti aspetto, allora."

In meno di un'ora ero a Viterbo.

Il sonno arretrato non costituiva più un problema, la curiosità di conoscere cosa volesse dirmi Elisabetta Farnese stava prevalendo.

Mi stavo chiedendo cosa pensassi di quella donna, oltre all'interesse professionale. Non volevo ammettere che non mi era indifferente. Mentire a se stessi è un'arte, richiede una consumata abilità psicologica o semplicemente di essere dei coglioni. Preferivo attenermi alla prima ipotesi.

Misi la giulietta nel parcheggio appena fuori Porta del Carmine, una delle tredici porte di Viterbo.

Fu da questo ingresso che nel 1367 entrò un corteo di cardinali e principi. Scortavano Urbano V che da Avignone stava tornando a Roma per riportare lì la sede papale. Avevano impiegato quasi due mesi, via terra, via mare e poi ancora via terra.

Pensai alla velocità con cui si possono propagare gli agenti patogeni nella società di oggi, moderna e globalizzata, dove in poche ore sono in grado di raggiungere luoghi lontanissimi. Mi uscì una smorfia, al pensiero che Urbano V dovette fermarsi a Viterbo quasi quattro mesi per un'epidemia scoppiata in città. Non si trattava di un virus, probabilmente era peste, la cui causa è batterica, ma poco importa. Sperai di non dover vedere, nel breve, cortei di ambulanze e carri funebri passare sotto questa porta né varcare qualsiasi altro ingresso.

Incrociai via San Carlo e raggiunsi presto il 12 del vecchio palazzo ristrutturato dove abitava Elisabetta.

Notai un uomo che risaliva su un'auto, ma rimase lì, non andò da nessuna parte. Mi bastò per capire che Elisabetta continuava a essere sotto osservazione.

Alzai la testa e alle finestre mi parve di scorgere una figura. Mi avvicinai all'ingresso. Uno scatto metallico sbloccò il portone, senza che avessi fatto nulla.

Salii le vecchie scale. Immaginai che fosse stata Elisabetta.

Arrivai al suo piano, la porta d'ingresso era semiaperta.

Entrai.

"Sono qua, vieni pure... e richiudi la porta", la voce proveniva dal salottino.

Lei era seduta a un tavolo con un notebook il cui display le illuminava il viso.

L'OMBRA DEL PIPISTRELLODove le storie prendono vita. Scoprilo ora