Capitolo 50

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È già un'altra mattina.
È molto presto, le tre e quaranta del maytino, ma so per certo che chiunque lavori qui sia alzato, a girare in gran fretta per i corridoi con pile di fogli e le ultime schede da compilare.
Solo io sono nella mia stanza.
È tutta la notte che penso a creare un buon piano. Non sono una che ha mai pianificato, ho sempre agito d'istinto, e sempre da sola. 
Ma sono giunta a una conclusione. Ho bisogno di aiuto.
Mi alzo dal letto, ed esco in fretta dalla mia stanza.
Come immaginavo, sono tutti svegli e attivi, che corrono di qua e di là in estasi. Nonostante siano tutti in giro, so che qualcuno non è nei corridoi. So dove trovare la persona che cerco.
Cammino velocemente, nessuno mi nota perché tutti sono troppo occupati e indaffarati per accorgersi della mia presenza.
Sono tra l'altro quasi invisibile, mi mimetizzo al meglio con le pareti bianche dietro di me.
Svolto per l'ennesima volta. Finalmente, vedo in fondo al corridoio una porta bianca.
Quel maniaco della perfezione non può essere altro che lì.
Raggiungo la porta, e leggo il cartello in alto, per essere certa che sia quella giusta. 
"Shawn" è tutto quello che c'è scritto.
Busso alla porta.
- Avanti - dice la sua vocina, che suona estremamente in ansia ora.
Abbasso la maniglia, e faccio capolino all'interno. 
Quando entro, il ragazzino non alza gli occhi dalla grande scrivania a cui è seduto e dove sta scrivendo freneticamente su un block notes.
La stanza è davvero enorme, con un largo letto, il comodino, un armadio, il gigantesco tavolo, un computer, un telefono, e il bagno.
Ci sono già stata, parecchie volte, quando dovevo portargli varie cose da parte di altri.
- Ehm... ciao - dico incerta.
Alza lo sguardo, stupito.
- Giulia - dice stranito, aggrottando le sopracciglia - Che ci fai qui? - chiede.
Mi mordo il labbro.
Non so se è una buona idea. Ma ormai sono qui.
- Dovevo parlarti. - replico. 
Lui si gratta la testa teso. 
- In realtà, scusa, ma sono molto impegnato, ho da correggere alcuni moduli che... - inizia.
- È importante. - dico con tono urgente.
Lui si interrompe, e lascia andare la matita con cui stava scrivendo.
Mi guarda lievemente preoccupato.
- Ok - dice, ancora un po' confuso. Poi mi indica la sedia davanti a lui - Siediti pure-
Io mi siedo di fronte a lui.
- Dimmi. - dice.
Mi sposto nervosamente una ciocca di capelli dal viso. Prendo un profondo respiro, e lo guardo.
- So che i soggetti del Gruppo A sono arrivati. Devo vederli. - dico.
- Lo sai che non ti è permesso avere contatti. - replica, assottigliando lo sguardo.
- Lo so. - rispondo - Ma Shawn, è davvero importante. Ho... ho bisogno del tuo aiuto. - dico, puntando i miei occhi nei suoi. - Bastano pochi minuti. Devo... devo vedere con i miei occhi. Devo vedere se è qui. -
Lui sembra soppesare la mia richiesta, sembra per la prima volta insicuro su qualcosa.
- Ti prego - mormoro. 
Non dice nulla per ancora parecchi minuti.
Sa di cosa sto parlando.
Mi ha visto, quando ero alla Radura, me lo ha confessato un giorno.
Allora non era il migliore del suo gruppo, ma lavorava come semplice scienziato alla sua postazione nel gruppo A. Solo dopo gli hanno dato l'incarico di supervisionare entrambi i progetti.
- Quanto conta, per te? - chiede a un tratto.
- Darei la mia vita per lui - rispondo, con un tono che suona anche a me incredibilmente sicuro.
Lui sospira.
- Va bene. Ti aiuterò. - dice.
Sento un sorriso formarmisi sulle labbra. Mi alzo dalla mia sedia, e raggiungo il suo lato, per abbracciarlo. È strano come mi venga naturale un gesto che ora per me è tanto inusuale.
Lui si irrigidisce.
Mi dà quasi l'impressione che non abbia mai ricevuto un abbraccio.
- Grazie - dico, sinceramente riconoscente.
- Non... non respiro - risponde. 
Mi scollo da lui, iniziando a ridacchiare.
È assurdo, ma era davvero da molto tempo che non ridevo.  Era da molto tempo che nessuno mi riusciva a far ridere.
Sospiro, cercando di riprendere la concentrazione. 
- Sarà difficile, lo sai, vero? - chiede.
Annuisco. 
- Bene - dice sospirando.
E iniziamo a pianificare.
Altra cosa in cui di certo è meglio di me.

Le 8:30.
Tutto è pronto.
Esco nel corridoio, e inizio a camminare. Tranquillamente, con nonchalance, come se non ci fosse nulla al mondo che possa mettermi fretta.
Quando invece vorrei solo correre. 
Il piano di Shawn funzionerà. 
Ne devo esser convinta, devo fare in modo che succeda.
Tutto questo, a sangue freddo, cercando di non pensare a cosa potrei effettivamente vedere al suo termine.
Come ho già detto, ricordo alla perfezione la pianta della base. Perciò, mi basterà poco per trovare la porta giusta.
È un'area riservata, quindi ci saranno una miriade di guardie sparse per il perimetro, che lasceranno passare solo pochi autorizzati.
E io ho un'autorizzazione.
Da quando? Più o meno da trenta secondi fa, quando Shawn ne ha redatta una, falsificata, grazie al suo super computer e al suo super cervello.
Mi ha assicurato che le guardie non controllano mai che l'autorizzazione sia stata ufficialmente rilasciata, anche se sarebbe il protocollo da seguire, perché è altamente improbabile che qualcuno provi a falsificarla. 
Un, unico, punto a mio favore.
Mi ha anche detto che però dovrò fare molto in fretta, e andare da sola, perché non può permettersi di esporsi così tanto.
E io non glielo chiedo nemmeno.
È già incredibile che abbia deciso di trasgredire alle regole per farmi un grande, enorme, favore.
Cammino ancora per qualche metro, stringendo in mano una cartellina piena di fogli, in realtà inutili, ma che servirà solo a far scena.
Svolto a destra, vado a avanti, poi a sinistra. 
In fondo al corridoio, riconosco subito due guardie, davanti ad una porta doppia.
Le raggiungo, cercando di mostrare più sicurezza di quanta ne ho. Le due, come immaginavo, mi bloccano il passaggio.
Una di loro socchiude gli occhi.
- È sicura di essere autorizzata? - chiede.
- Certo - rispondo, come se stesse chiedendo un'ovvietà - Vuole il documento scritto? - chiedo.
Le due si lanciano delle occhiate, poi l'altra annuisce.
Prendo il foglio datomi da Shawn, sfilandolo da una tasca della giacca, e glielo porgo.
La guardia lo dispiega, e lo legge attentamente. Poi lo mostra all'altra, che annuisce.
- Può passare - dice, col tono sollevato di chi è contento che sia tutto a posto, ritornandomi il foglio. 
Annuisco, afferrandolo.
Lo ripiego e lo ficco in tasca, poi varco in fretta la porta, che è stata aperta dalla guardia con una di quelle strane tessere magnetiche, prima che l'uomo ci possa ripensare.
La porta di metallo si chiude alle mie spalle.
Sono dentro.
Di fronte a me, un altro corridoio bianco, che sembra come tutti gli altri. Ma che non lo è affatto.
È quasi fatta.
Vedo due porte bianche: su una c'è un oblò trasparente, come una piccola finestra. La raggiungo.
Prendo un profondo respiro.
E guardo oltre.
Oltre c'è una grande stanza, con tre divani larghi e poco altro.
Il mio sguardo cade prima su delle ragazze, sedute in circolo a parlare. Devono essere quelle del Gruppo B.
Poi, sui ragazzi.
Riconosco subito Minho. È di spalle, ma ci metto mezzo secondo a capire che è lui.
Rilascio parte dell'aria che stavo trattenendo a vederlo: almeno il buon vecchio Minho sta bene.
Non vedo George, però. 
Sento formarmisi un groppo in gola, che cerco di ricacciare giù a forza.
E poi, accanto a lui, un ragazzo alto. Lo supera in altezza di almeno dieci centimetri, e Minho non è un nano.
Anche se è di spalle, mi è familiare come il mio riflesso.
È lui. È decisamente lui.
Con i capelli biondi ora più lunghi, decisamente più lunghi, che gli arrivano ormai quasi fino alle spalle.
Ma è lui.
È Newt.
Sento una lacrima scivolare lentamente lungo la guancia.
È vivo.
Sta bene. Oh, caspio, grazie a dio sta bene.
Rivederlo è come un sogno diventato realtà.
Tutto quello che ho passato, tutte le notti in bianco, a sognare un'altra vita, ora non contano niente. Ora conta solo che lui stia bene.
Mi asciugo in fretta la guancia.
In quel momento, si volta verso la porta.
Ha il viso stanco, segnato da cicatrici e profonde occhiaie.
Il suo sguardo scorre pigramente e disinteressato su tutta la sala, senza vedermi.
Poi, torna di scatto sull'oblò, come se effettivamente si fosse accorto di qualcosa. Sgrana i begli occhi marroni, aprendo leggermente la bocca. 
Mi ha visto.
Con la mano tremante mi porto un dito alle labbra, facendogli segno di tacere.
Poi mi volto, e mi allontano dalla porta, entrando in quella di fronte.
È un bagno, diviso in una parte per femmine e una per maschi.
Lascio la cartellina sul lavandino.
Mi appoggio al muro piastrellato, aspettando.
Quello che provo è un misto di emozioni confuse. Felicità, paura, ansia, sollievo.
Mi accorgo di avere il respiro affannoso, le gambe mi tremano tutte.
Prendo delle profonde boccate d'aria.
Devo provare a calmarmi. 
Cosa mi succede?
La porta si apre.
Mi volto verso di essa.
Newt entra. Mi rivolge una breve occhiata, poi e se la richiude alle spalle.
Si appoggia ad essa con la schiena, incrociando le braccia al petto.
È Newt, in carne ed ossa, di fronte a me.
Dopo due mesi. Dopo due mesi in cui non ero nemmeno certa che fosse ancora vivo.
E ora siamo qui, noi due, soli, in un bagno della C.A.T.T.I.V.O..
La situazione è talmente surreale che potrebbe farmi scoppiare in una risata isterica. Se non fosse per la paura che mi preme nel petto.
Newt mi guarda, io lo guardo.
So cosa vede. E so che non vede Giulia.
Non vede la sua Giulia, non vede quella me che ho paura di aver lasciato nella Radura, quelli che mi sembrano secoli fa.
Io vedo un ragazzo cambiato, magari cresciuto, stanco, ma sempre lo stesso.
Questo è qualcosa che non potrò mai dargli. Non potrò più essere la stessa Giulia.
- Allora è vero. - dice, interrompendo quel silenzio assordante che si era creato.
Deglutisco.
- C...Cosa? - balbetto.
Lui assottiglia lo sguardo, squadrandomi da testa a piedi per quella che sarà la milionesima volta.
- Sei una di loro. - replica.
Lo guardo confusa.
Faccio per parlare, ma lui mi interrompe sul nascere.
- Lo sei sempre stata, vero? - dice. Il tono è gelido, come lame di ghiaccio che mi perforano ad ogni parola che mi rivolge - Sai, non ho mai voluto crederci. Non credevo che Alby avesse ragione. Né io, né Minho. Noi credevamo a te. Ma era come diceva lui.  Eri una fottuta spia. - sibila.
Sgrano leggermente gli occhi.
Come fa a credere ancora ad una cosa del genere?
- Newt... - inizio, la voce mi esce come un debole sussurro.
- Vorrei sapere, c'è stato mai qualcosa di vero in quello che hai detto? C'è mai stato qualcosa di vero tra noi? - chiede. Qui sono pronta, sto subito per rispondere, ma lui mi interrompe di nuovo. - No, non credo proprio. Ero solo un cacchio di "soggetto" da essere studiato, o sbaglio? Eh? - ormai non si ferma più, è come un treno in corsa, e io sono in mezzo alle rotaie - Ah, e cos'è questa... - mi indica dall'alto in basso con un gesto della mano e un'espressione schifata - ...una nuova moda? - chiede acido.
- Non è una moda. - replico, ora che sembro esser riuscita a recuperare almeno un briciolo di dignità. 
Aspetto qualche attimo, cercando le parole giuste da dire. 
- Sono stata usata come cavia, le... le prime settimane alla C.A.T.T.I.V.O. . Sono stata torturata, è stato... doloroso. I miei capelli, i miei occhi, la mia pelle, hanno... perso colore a causa del siero che mi iniettavano a ogni caspio di test. - il mio tono suona più smorto di quanto vorrei. 
Vorrei sembrare forte, ma proprio non ce la faccio.
Non ho superato quei test perché ero forte. Li ho superati perché avevo un pensiero fisso, un obiettivo che nonostante tutto mi illudevo di poter raggiungere, in un futuro lontano: rivedere Newt.
E ora che lo rivedo, capisco che tutte le scene del nostro incontro che mi ero immaginata erano false speranze.
Lui sembra rimanere spiazzato da questa risposta.
Sul suo viso ricompare, per un istante, un brevissimo istante, quella sua espressione preoccupata, preoccupata per me. Che mi fa quasi sperare.
Di nuovo, mi ritrovo a sperare, come un tempo.
Poi però torna impassibile come prima.
- Quindi no, non è una fottuta moda. Non sputare su quello che ho passato come se fosse stato piacevole. - dico fredda, ma non abbastanza - E no, non ero una spia. Non lo sono mai stata. Non sapevo niente di tutto questo. Lo avevo dimenticato. Non ho mai finto, né a parole né a fatti. - 
Lui ora mi guarda scettico, inarcando un sopracciglio.
Non mi crede, per niente.
Non mi crede, e in fondo non gliene faccio una colpa.
Non riceve notizie da me da due mesi, poi mi rivede spuntare all'improvviso alla C.A.T.T.I.V.O., che gironzolo per la base come se nulla fosse.
È normale che non mi creda.
Eppure fa male. Fa un male cane.
- E cos'è, esattamente, che fai ora qui? - sbotta gelido.
- Io... sto al servizio degli altri scienziati. Faccio il lavoro sporco. - rispondo.
- Poveretta, sono tanto in pena per te - dice ironico.
Io sospiro piano, guardando a terra.
Sento le lacrime bruciare agli angoli degli occhi, ma non ho intenzione di piangere.
Non davanti a lui.
Potrebbe solamente disprezzarmi di più se scoppiassi a piangere.
- Newt, ti prego, credimi - mormoro, sento la mia voce tremare - Sei stato tutto ciò a cui sono riuscita a pensare, da quando sono arrivata in questo caspio di posto. E ora sei qui, davanti a me. Mi odi e mi disprezzi, ma almeno sei qui. Sei vivo, e stai bene, e... - inizio.
- Sul primo punto hai ragione, sono vivo, anche se per miracolo. Sul secondo, un po' meno. - mi interrompe.
Aggrotto le sopracciglia.
- Che intendi dire? - replico, preoccupata, ma anche confusa.
Lui sbuffa, facendo roteare gli occhi.
- Ma che sto a parlarci a fare, con te. - sgrugnisce, sputando a terra. - Tanto non te ne frega un cazzo. -
Fa per andarsene, appoggia la mano sulla maniglia della porta.
Io afferro in fretta il suo braccio. È caldo e muscoloso, trovo bello anche questo futile particolare, come tutto di lui.
Fa scattare lo sguardo su di esso, dove la nostra pelle è a contatto, dopo tanto tempo.
- Non mi toccare. - sibila.
Ritiro la mano in fretta, facendo cadere il braccio lungo il fianco.
Mi odia così tanto da non voler essere nemmeno toccato da me?
Non posso crederci.
Mi sembra tutto un assurdo e terribile incubo.
- Mi... mi interessa invece - balbetto, ma cercando di dimostrare che ne sono convinta.
Lui mi lancia una lunga occhiata dura, ma anche lievemente vacua.
- Non sto bene. Non sto fottututamente bene. Ho quel fottuto virus, quella cacchio di Eruzione. Sono un fottuto spaccato. - dice.
Sgrano gli occhi, senza parole.
Poi aggrotto le sopracciglia.
- Non è possibile - replico, confusa,  preoccupata, in ansia, e tante altre cose.
Lui inarca un sopracciglio.
- E invece credici. Magari i tuoi risultati sono sbagliati, se vuoi posso darti un mio capello per analizzarlo e studiarlo meglio. - dice acido - Perché io sono malato, impazzirò, morirò, e marcirò in questo fottuto mondo di merda, mi hai capito? - 
Apro leggermente la bocca, terrorizzata da quello che ha detto, con una semplicità sensazionale e preoccupante.
- Addio. E non farti più vedere, o giuro che attribuirò il tuo pestaggio alla malattia. - sibila.
Apre la porta, ed esce, sbattendosela alle spalle. Lasciandomi sola, a fissarla come imbambolata.

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