Capitolo 15

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Theo aveva un’espressione sul volto che non lasciava presagire assolutamente niente di buono, e gli altri due erano così ambigui e immersi nell’ombra di qualcosa che non riuscivo a vedere, che rabbrividii.

Mi rannicchiai alla fine del letto, ma fu inutile. Non mi mossi, non cercai di scappare, non urlai. Non subito almeno.

‘’Ma che carina che sei!’’ ironizzò Theo, sorridendo.

‘’Vaffanculo, bastardo impenitente’’ ringhiai. Se dovevo soffrire, volevo farlo per bene.

‘’Oh oh, che ragazzina ribelle’’ intervenne uno di loro, che pareva marocchino. ‘’Cosa possiamo fare a riguardo?’’.

‘’Voi che proponete?’’ sogghignò il biondo. ‘’Facciamole vedere chi comanda qui, nel Bronx’’.

E lo riconobbi dalla gamba fasciata. Era quell’uomo. L’uomo a cui, quella sera, avevo sparato.

Volevo essere dappertutto, in quel momento, ma non lì. Non con loro.

‘’Cercheremo di trattarti bene, Pearson’’.

Il resto fu confuso. Un ammasso di urla, fuoco che brucia la pelle fin dentro le ossa, e coltellini invisibili che incidono la carne fino a farla sanguinare a fondo. Con un accendino immaginario- che aveva preso le sembianze delle loro labbra- mi avevano ustionata la bocca. Le loro mani viscide accarezzavano la mia pelle più e più volte fino a farla diventare rossa come la mia faccia mentre urlavo, fino a spezzarmi le corde vocali. Non potevo muovermi. Dopo la mia prima tentata fuga, con le loro cinture mi avevano legata al letto.

Dopo aver ‘scherzato’ con movimenti e azioni a cui preferivo non pensare, erano passati al botto finale.

Non pensavo che nessuno in casa non avesse sentito le mie urla, solo che a nessuno interessava. Erano passate quattro ore da quando ero scomparsa, chissà se mi stavano già cercando.

Speravo di si.

Non avevo mai sentito tanto dolore in vita mia, ma non era un dolore fisico- non solo. Era un dolore interno, perché avevo sentite tante di quelle storie sugli stupri di gruppo che dovetti ingoiare la mia bile, e cercare di stare calma. Solo dopo un’ora, la più lunga della mia vita, mi guardarono negli occhi e risero. Risero come se fosse la cosa più naturale del mondo. E dopo che tutti e tre erano stati dentro di me, mi sentivo non-io. Mi sentivo una Diana che non era la Diana che volevo e che dovevo essere.

Dopo essersi divertiti quanto bastava, l’ultima cosa che fecero fu incidermi sulla spalla la scritta ‘Tiger’ con un piccolo coltellino. Ad ogni ghirigoro, ogni lettera scavata nella pelle, ogni sogghigno ed ogni sorriso, mi scappava sempre di più da piangere.

Non piansi mai. Trattenni le lacrime fino a farmi bruciare gli occhi, ma non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere.

Pensavo a mio padre, alla sua voce autoritaria. ‘’Sei una Pearson, il sangue non mente’’. Me lo diceva sin da quando ero piccola. Pensavo alla sua presunta iperprotettività e non potevo che sperare che arrivasse. Sarebbe arrivato, e non mi avrebbe trovata ustionata e insanguinata e piangente. Non ero una principessina, non ero un angelo, non ero più una bambina, e glielo avrei dimostrato.

E poi, improvvisamente, uscirono.

Solo due di loro, però. Il biondo, quello a cui avevo sparato alla gamba, rimase in piedi a guardarmi gemere e lamentarmi sul letto sporco di rosso. Ero sudata, tremavo, e provavo odio. Un odio così grande che lì, in quell’istante, non mi pentii più di averlo sparato. Dovevo puntare al cuore, altro che gamba.

‘’Io e te non abbiamo ancora finito’’ sorrise, in modo tanto- troppo- perverso.

E lo capii dai suoi occhi inespressivi, cosa aveva intenzione di fare. E non l’avrei mai supplicato di risparmiarmi. Non avrei mai supplicato nessuno di loro. Mai.

Mi sarei fatta violentare altre mille volte.

‘’Fammi quello che vuoi’’ ringhiai, stanca. ‘’Ma sappi che hai i giorni contati. Mio padre non te la farà passare liscia’’.

‘’Sta zitta’’.

Poi, improvvisamente e in tutto il suo notevole peso, si fiondò su di me.

Dormivo da circa un’ora, sola nella stanza. Senza nessuno. Sola. Mi sembrava un miraggio. Avevo vissuto un incubo.

Anche se non avevo pianto né mi ero smossa dinanzi a loro, non appena ero rimasta in solitudine ero scoppiata in un pianto silenzioso e segreto.

Un incubo.

Quello era stato- ed era tutt’ora- un incubo.

Ed avevo sperato che fosse arrivato qualcuno, che qualcuno mi avesse salvata. O almeno mi avesse allungato una mano, un dito. Ma non era arrivato nessuno. Forse non si erano nemmeno accorti della mia assenza.

Erano le tre di notte, lessi dal cellulare senza campo e con poca batteria a disposizione, quando sentii strani rumori provenire dal piano di sotto. Rumori forti e preoccupanti. Rumori di…un combattimento? Ma che…?

Quando provai ad alzarmi, capii che ero messa davvero male. A parte i lividi sul braccio, avevo zone rossastre dappertutto. Non c’era uno specchio, ma ero sicura di essere conciata più che male. Non riuscivo a muovermi. Forse mi ero rotta una costola. O forse ero rotta tutta, fuori e dentro.

Così rimasi immobile. Dopotutto non erano cazzi miei.

Chiusi gli occhi e provai a dormire e a non piangere di nuovo. Riuscii solo nella seconda. Non ebbi tempo per la prima perché la porta si spalancò, e il terrore nei miei occhi era palpabile.

‘’Vi prego’’ dissi, agonizzante. ‘’Basta, non ce la faccio più. Così mi ammazzate’’.

E sentii dei passi recarsi verso il mio letto, ma non dissi nulla e non voltai nemmeno il capo. Solo quando sentii un profumo conosciuto, e fui accolta fra braccia amiche, capii di avere qualche speranza.

‘’Mi dispiace, Diana’’ sussurrò, sui miei capelli. ‘’Mi dispiace tantissimo’’.

Io non riuscii a rispondere, perché mi teneva troppo stretta e mi doleva tutto. Gemetti e lui capì, e mi lasciò.

‘’Ti prego’’ aveva il panico nelle iridi. ‘’Ti prego, dimmi che non sono arrivato troppo tardi’’.

‘’Sei arrivato troppo tardi’’ sussurrai, colta da uno spasmo di dolore alla schiena.

Lui guardò i miei graffi sul braccio, i miei lividi, i miei occhi vacui, e si alzò di scatto. ‘’Ora scendo e li stermino tutti, qui figli di puttana’’.

‘’Zayn…’’ sussurrai, per fermarlo. ‘’Ti supplico, portami a casa’’.

Mors omnia solvitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora