Capitolo 22

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La casa mi sembrava troppo grande e vuota.

Avevo consumato il pavimento, facendo avanti e indietro sul corridoio per un tempo che mi pareva interminabile.

Il mio sguardo volgeva sempre alla porta di legno di casa, sperando che si aprisse da un momento all’altro e che entrasse almeno la metà dei Dark Roses. O, viva la cattiveria, perlomeno la parte che contasse. Ma erano quasi due ore che la porta era immobile, quasi come gli alberi fuori dalla finestra ad arco- che non si muovevano nemmeno di un millimetro.

E, sotto un tetto che- in quel momento- sentivo non-mio ancora di più, mi resi conto che avevo scelto. Dal momento in cui ero uscita di casa, andando in contro all’ignoto e mettendo a rischio la mia vita per delle persone che non facevano altro che esporla a rischi, avevo scelto.

Dal momento in cui avevo deciso di non chiamare mia madre, per non farla preoccupare ancora di più e per non esporre anche lei ad ulteriori rischi, avevo scelto.

Dal momento in cui ero diventata amica di Carl- Carl, l’intoccabile, l’inavvicinabile, l’invincibile- e dal momento in cui ero stata quasi felice di baciare di nuovo Zayn- mio fratello-, avevo scelto.

Avevo scelto la mia vita, la strada che avrebbe preso. Una strada che era stata a senso unico per tutti, e lo sarebbe stata anche per me. Un vicolo cieco, in cui mi stavo addentrando ora dopo ora, sempre di più.

E, quel maledetto pomeriggio, non avevo voglia di risalire a galla. Non ce l’avrei mai avuta.

E pensavo che magari, mentre io mi stavo riempendo il cranio di pensieri incongruenti- manco fossi una pianta e loro acqua, qualcuno poteva essere in fin di vita. Che magari Gabriel, il dolce e simpatico e goloso Gabriel, poteva essere addirittura morto. E nessuno l’aveva soccorso. Non c’era stato nulla. Non c’era stata una chiamata disperata al 118, non c’era stato il rumore assordante dell’ambulanza, non c’era stata nessuna lacrima e nessun perdono. Non c’era stata nessuna speranza.

E solo il pensiero che, egoisticamente, sarebbe potuto succedere lo stesso a mio padre, Carl, Ted, o addirittura Zayn mi distruggeva. Non me lo sarei mai e poi mai perdonata, anche se non l’avrei fatto comunque. Era solo colpa mia. Se, quel giorno di merda, non fossi scappata di casa non mi avrebbero rapita e violentata- e non ci sarebbe stata nessuna ritorsione e nessuna vendetta. O forse si, ma non mi sarei sentita responsabile.

Avevo sempre desiderato tantissime cose nella mia vita, quelle materiali che non potevo avere- perché mia madre era una donna single che lavorava- e quelle profonde che non potevo avere perché io, alla fine, profonda non ero. Mi ero arresa, anche se una parte di me le desiderava ancora. Una Cooper, una casa, un cane…sentimenti. Ma in quell’istante mi resi conto che, alla fine, l’innocenza è la cosa più cara che ha ogni uomo.

Quando sei innocente, nemmeno l’oscurità ti fa paura.

E mentre pensavo, perché era l’unica cosa innocente che mi restava, la mia vista si appannò. Il dolore che fino ad allora avevo sentito alla schiena si amplificò all’ennesima potenza, divenendo insopportabile. Fitte profonde quanto oceani mi aggrovigliarono la pancia e mi rivoltarono lo stomaco, come un calzino.

Fui costretta ad accasciarmi a terra, presa anche da un forte giramento di testa, e a portare le mie braccia attorno alle mie gambe.

‘’Ora passa, ora passa’’ mi ripetevo come un mantra. ‘’Sto bene, sto bene’’.

Ma una cosa non diventa vera, nemmeno se la ripeti all’infinito. E l’ultima cosa che vidi fu la porta di casa aprirsi, ma non capii nemmeno chi ci fosse dietro. Chiusi gli occhi, sentendomi svenire.

Voglio solo dormire.

Qualcuno accarezzò i miei capelli, ma ero troppo stanca per aprire gli occhi e vedere chi fosse. Ero su una superficie morbida, forse un letto. Ma…?

Mors omnia solvitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora