Capitolo 37

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DIANA’S POV

La stanza aveva le pareti bianche, bianchissime, questa era l’unica cosa che riuscivo a vedere e capire. Avevo un mal di testa allucinante, la vista era completamente appannata e non riuscivo neanche lontanamente a capire dove fossi.

C’era uno specchio.

Mi avvicinai, cercando di camminare con una difficoltà inaudita e allungando un braccio verso la superficie riflessa. Ero davanti allo specchio, tondo e lungo a grandezza naturale, desiderosa di vedermi e capire come stessi. Mi sentivo svenire, non riuscivo a respirare. L’aria era pesante, polverosa, e avevo l’impressione che le pareti si stringessero sempre di più.

Volevo vedermi.

Ma nello specchio non c’era nessuno. Io ero lì davanti, riuscivo addirittura a sfiorare la sua superficie fredda, ma non avevo riflesso. All’interno dello specchio, il vuoto.

Le pareti si chiudevano sempre di più attorno a me, ma non erano più bianco latte. Erano piene di fotografie, che non erano per niente nuove. Ero io da bambina, io da ragazzina, da adolescente. Sullo scivolo, il primo giorno di scuola, in camera mia, con la mia migliore amica del tempo, con mio padre. Ce ne erano tante, di foto con Peter. Ed ero così felice, eravamo così felici, che mi venne da piangere.

E stavo soffocando. Allargando le mie braccia, riuscivo addirittura a toccare entrambe le pareti laterali. Non riuscivo a capirlo, ma probabilmente stavo piangendo.

Sentivo la voce di mio padre che mi chiamava- ‘’Diana, è pronto il pranzo’’ ‘’Diana scendi dall’altalena!’’ ‘’Diana sei la mia peste preferita’’- e quel suono rimbombava nelle mie orecchie così tanto che temei mi si spaccassero i timpani. Ed urlai, stretta fra pareti piene di ricordi e voci che erano state la colonna sonora della parte più spensierata e bella della mia vita. Ma nel momento in cui gridai, scomparve tutto. Scomparve il malessere, la voce di mio padre, quella stanza claustrofobica, e tutte le foto. Come se non ci fossero mai state. E stavo bene.

‘’Diana’’ qualcuno mi chiamò, ed io mi voltai speranzosa. Non ero sola, avevo riconosciuto la sua voce. Zayn aveva il giubbotto di pelle nera che mi piaceva di più, la pelle quasi diafana, e quel sorriso sghembo che sognavo tutte le notti. E sorrideva. Sorrisi anche io.

Lui allargò le braccia, come ad incitarmi ad abbracciarlo. Ed io mi diressi verso di lui, perché avevo così freddo e mi sentivo così sola da far paura.

Ma mi bloccai. Zayn aveva in mano una pistola.

E me l’aveva puntata contro, con un sorriso che di rassicurante e da Zayn non aveva proprio niente.

‘’Zayn, che cosa stai facendo?’’ balbettai.

‘’Ho vissuto una vita che non mi piaceva per diciassette lunghissimi anni’’ ringhiò. ‘’Non ho mollato mai. Sono cresciuto, in un modo o nell’altro. Ma tu? Tu non sei me e non sei forte’’

Volevo urlare, dirgli di stare zitto, di smetterla perché io ero forte e ce l’avrei fatta. Ma non avevo la voce, non avevo più niente.

‘’Ti ricordi’’ continuò Zayn. ‘’Quando la moglie di Gabriel, Emma, al funerale ti disse che ti augurava di perdere la persona più importante della tua vita?’’

Non riuscii neanche ad annuire, ma non avrei mai potuto dimenticare una cosa del genere.

‘’E se quella persona’’ domandò. ‘’Fossi tu?’’

Sentii solamente uno sparo, e il fragore di uno specchio che cadeva in mille pezzi. Poi il vuoto.

Quando mi svegliai di colpo, Carl era entrato nella mia stanza e non era solo. Con lui c’era una ragazza. Io, ancora scossa dal mio incubo, inizialmente non ero riuscita ad indentificare chi fosse, ma quando i miei occhi si abituarono alla luce del sole non ci misi molto a riconoscerla. I suoi capelli rosso fuoco saltarono ai miei occhi.

Mors omnia solvitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora