Capitolo 47

30 1 0
                                    

Carl era steso sul divano di casa, nel salone ormai vuoto che aveva ospitato le sequenze di una scena che avrei preferito dimenticare per sempre.

Mi chiusi la porta alle spalle e rimasi ferma lì, a guardarlo con i miei occhi troppo azzurri. Carl era immobile, quasi fosse morto, e guardava il soffitto bianco. Non una sola lacrima rigava il suo volto, non un solo strato di malinconia né tristezza, non un sospiro di troppo e nemmeno un'occhiata disperata.

Era fermo e silenzioso.

Io rimasi con la schiena poggiata alla superficie legnosa della porta, cercando di distogliere lo sguardo e non riuscendo a trovare nulla a cui aggrapparmi.

''Come stai?''

Era stato Carl a parlare, con una voce così monocorde che a stento avevo riconosciuto, sempre statico ed immobile. Allungò una mano e mi fece segno di avvicinarmi, lasciandomi un po' di spazio sul divano di pelle rossa enorme.

Camminai verso di lui con una lentezza esasperante, mentre guardavo la punta delle mie scarpe, e mi stesi accanto a lui. Le nostre spalle si sfioravano, la sua bollente e la mia gelata, e rabbrividii. Se c'era una sola persona al mondo che poteva capirmi, a parte mio padre con cui non avevo un grande rapporto per via del mio rancore, quella era Carl.

''Respiro'' risposi, atona. ''E tu? Come stai?''

Solo allora notai che aveva qualcosa in mano: un libro dalla copertina marrone un po' malandato, con una scritta dorata che non riuscivo a leggere. ''Leggo le poesie di Emily Dickinson''

Sgranai leggermente gli occhi. ''Tu leggi poesie?''

''Quelle di Emily Dickinson soltanto quando sono triste''

''Sei triste?''

Era una domanda stupida, ma mi pareva così assurdo che Carl stesse male e non riuscisse a farlo capire che provai invidia. Anche io avrei voluto nascondere i miei sentimenti e le mie emozioni, ma ogni volta che ci provavo finivo per piangere o fallire miseramente.

Carl aveva l'indice della mano destra fra due pagine e, continuando a fare silenzio, aprì il libro in quel punto. Sospirò, per la prima volta, e lo capii: era davvero triste.

Prese fiato, e recitò una parte sottolineata con una matita chiara: ''Che l'amore sia tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore'' e non riuscii a spiegarmi come avesse fatto a leggere quel rigo con tanta intensità senza far inclinare la voce.

Gli strinsi la mano quasi d'impulso, e lui ricambiò la stretta così forte che pensai che la mano mi sarebbe diventata viola.

''Sai, Diana'' iniziò. ''Non lo odio e non lo condanno. Non sono minimamente arrabbiato con lui, sono solo deluso ma non ho neanche un poco di rabbia dentro di me''

''Davvero?'' domandai.

''Mi sento solamente in colpa perché non so neanche dov'ero quando è passato dalla parte del nemico. Non sono riuscito a fermarlo'' si bloccò, e riprese poco dopo. ''E anche perché avrà passato i dieci anni più brutti della sua vita, bloccato fra due clan che si scontravano ogni due giorni, e avrà sofferto così tanto. Io non c'ero. Non l'ho capito''

E la sua voce aveva il suono del rimpianto e di qualcosa che si rompe irrimediabilmente.

''Non è colpa tua'' sussurrai. ''Non è colpa di nessuno''

Lui non rispose ed ebbi l'impressione che non ne fosse neanche convinto. E non sapevo che dire e neanche che cosa fare, perché ero distrutta quanto lui e perché forse avrei dovuto far finta di niente e non andare da Niall. Ora Carl sarebbe stato bene, Zayn e io saremmo stati insieme, e mio padre non sarebbe stato deluso.

''Non sappiamo niente dell'amore'' continuai, imperterrita. ''Niente se non che è amore e basta. Non ci sono spiegazioni e giustificazioni, quando si ama una persona. Lo dice Emily Dickinson, no?''

Potei sentirlo sorridere.

''Grazie, Diana'' disse. ''Sei come una sorella, davvero''

''Anche tu sei come un fratello''

E forse non stavamo sorridendo con il cuore, forse saremmo stati male quella notte e mille altre ancora, forse ci saremmo domandati per ore dov'era Zayn in quel momento, e forse non saremmo stati meglio. Ma eravamo stati peggio solo tre secondi prima.

Quando hai qualcuno che ti capisce con cui piangere, dentro anneghi di meno.

ZAYN

Tom era davanti a me, in tutta la sua imponenza, mentre sorrideva soddisfatto. Avevamo cenato, ed ero rimasto in silenzio. I Tiger avevano parlato a tavola, ed ero rimasto in silenzio. Avevano pianificato e scherzato, ed ero rimasto in silenzio. Fino a quando Tom, il capo, non mi aveva chiesto di seguirlo nel suo studio.

Il nuovo nascondiglio dei Tiger, che erano ricercati dalla polizia, era situato in periferia di New Orleans, a pochi isolati da un campo di calcio. Chissà se Carl avrebbe giocato con me, in un altro momento, come tanti anni prima.

E per tutto il tempo, mi sentivo come se mi mancasse qualcosa. E Diana era dappertutto, come non era mai stata. Era un sacco di cose. Diana era il fuoco, a cui nessuno si avvicinava per paura di essere bruciato. Nessuno, a parte chi era già cenere.

Tom mi fece segno di sedermi, ed io obbedii senza dire una parola.

''Finalmente sei ritornato da noi, Zayn'' sorride maleficamente.

''Già, finalmente'' ironizzai.

''Ora tutto è come dovrebbe essere'' aggiunse. ''Per noi è un vero onore averti qui''

''E non potevi dirmelo in cucina, questo?'' ringhiai. Non mi interessava di nessuna conseguenza, perché quando non hai niente non hai niente da perdere.

Tom non la prese male, al contrario sembrò compiaciuto. ''Non è questo quello che volevo dirti''

''E cosa volevi dirmi?'' lo incitai, stanco. Era stata una lunga giornata, e - anche se non avrei dormito- volevo solo mettermi a letto. Possibilmente spegnendo i pensieri.

''Voglio raccontarti una storia che inizia diciassette anni fa''

''Non ho tempo per le storie'' brontolai, alzandomi dalla sedia.

''Io ti consiglierei di sederti, Zayn Malik''

Mors omnia solvitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora