Capitolo 39

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Leeds era sempre fredda, ma la periferia batteva il centro. Anche d'estate, girare per strada senza una felpa o un cappotto era praticamente un suicidio bello e buono. E per una come me, che amava il freddo e la pioggia, di certo non era un problema ma per tipi come Carl- che avevano già freddo con 23 gradi, figurarsi con 10- era pressappoco impossibile.

Per quattordici lunghissimi giorni- e tre ore, aggiungerei- me l'ero sorbito mentre si lamentava per il freddo, per la lontananza dal centro abitato e trafficato, e per l'odio radicato ma senza motivo che provava nei confonti dell'unico posto che portasse sotto casa nostra una minima quantità di esseri viventi: un semplicissimo Starbucks.

Nella quale lavoravo io, tra l'altro, giusto perché l'avevamo deciso insieme: stando a casa tutto il giorno per paura di essere vista da qualcuno che conoscevo, e dovendo essere costretta perciò a non spostarmi dalla periferia, l'unica alternativa alla noia (e alla depressione e ai pensieri negativi e pessimisti) era fare qualcosa: il posto sperduto in cui eravamo finiti offriva l'assunzione in quel bar come unica scelta. Cercavano addirittura personale, disperatamente. Forse una persona sana di mente non sarebbe andata a lavorare in un posto così isolato, ma io sana di mente non ero mai stata e quindi si poteva fare.

I giorni, in quel modo, passavano più velocemente e avevo meno tempo per pensare.

Il bar era davvero bello, arredato in stile moderno e sintonizzato su canali di musica ventiquattro ore su ventiquattro, e nemmeno tanto poco popolato come pensavo. Aveva i suoi clienti di fiducia, ogni tanto spuntava qualche volto nuovo, ma nessuno che avessi mai visto. Perloppiù turisti che si dirigevano verso il centro e facevano una pausa.

Meglio così, di certo.

Christine aveva pensato di venir a lavorare con me in un primo momento, ma poi aveva deciso di andare a lavorare in un bar meno in culo ai lupi ed era comprensibile. Lei non aveva di certo motivi per restare ''segreta''.

Quel pomeriggio, mentre ero intenta a preparare un cappuccino per il solito cliente anziano che leggeva il giornale delle cinque, la porta si aprì con uno scampanellio (dovuto ad uno scacciapensieri preso da Holland, la proprietaria, in Africa) e fece ingresso nel bar la mia cara amica dai capelli rosso fuoco.

Mi sorprendevo ancora di quanti tatuaggi avesse, sparsi per tutto il corpo, e quando indossava maglie scollate- come la sua maglia bianca di allora, in contrasto con la sua pelle diafana- rimanevo ancora più stupita.

Christine finiva prima il turno del giovedì, e quindi passava a prendermi a piedi. L'unico ad avere la macchina ( e che macchina!) era Carl, ma non aveva intenzione di prestarcela o di venirci a prendere.

Sorrise serenamente, e si diresse quasi saltellando verso il bancone. Mi ero ormai abituata al suo comportamento spontaneo e immaturo, per certi versi, e mi piaceva perché era così spensierata che- per un secondo- diventavo spensierata anche io. Anche se lei aveva un fratello e un padre in prigione, e non aveva notizie di niente e nessuno, non piangeva o si rattristava mai. Era una vera e propria roccia.

''Allora Diana, come stai?'' ironizzò, come se non mi avesse chiamata cinque minuti prima per avvertirmi che stava arrivando, e non mi avesse fatto la stessa domanda.

''Bene, tu?'' risi, mentre portavo il cappuccino all'uomo e lei mi seguiva. Era di un bel po' di centimetri più bassa.

''Benissimo''

Tornai dietro al bancone, e me la ritrovai di nuovo alle calcagna. ''Devi proprio seguirmi come un cane da presa?''

''Sì'' sorrise, e ricambiai. Era assurda, nel vero senso della parola. A partire dal colore dei suoi capelli, dal suo modo strambo e coloratissimo di vestire, fino ad arrivare al suo profumo. Quale essere di sesso femminile compra, e si spruzza in quantità industriali, profumi maschili?

Mors omnia solvitDove le storie prendono vita. Scoprilo ora