Capitolo 59

1.5K 79 15
                                    

LIZ
- Dai, colpisci. - sprono Melody a colpire il bersaglio, allontanandomi di qualche centimetro dal suo corpo. La ragazza attacca attraverso una breve scarica di onde sonore.

- Va bene, riesci a farlo durare più a lungo? - le chiedo. Lei annuisce, intimorita. Attiva il suo totem e comincia a colpire il bersaglio, concentrandosi a lungo. Tuttavia le onde sonore attraversano il bersaglio, ma non lo danneggiano, come se non ci fosse forza all'interno di esse.

- Dannazione. - Melody sbatte il piede a terra, furiosa con se stessa. 

- Stai tranquilla. Non devi riuscirci subito. - mi avvicino a lei, cercando di rincuorarla.

- È passata una settimana, e ancora non riesco ad usare i miei poteri. - i suoi occhi sono colmi di collera, mentre la sua voce trema a causa del dispiacere.

- Melody, non essere così dura con te stessa. Sei già a buon punto, devi solo migliorare un altro po' e... -

- Non mi interessa, io voglio essere più utile di così. - ringhia, amareggiata. Per la rabbia, chiude le mani a pugno, infilzandosi con le proprie unghie. Ha lo sguardo puntato verso il basso, e alcune ciocche ribelli, sfuggite dalla coda, le vanno sul viso, dandole un'aria più trasandata.

Resto in silenzio. Devo assolutamente aiutarla. Non riesco a vederla in questo stato. Ho bisogno di qualcosa che riesca a motivarla, o meglio, di qualcuno: Ariel. È davvero brava ad aiutare le persone attraverso la sua innata empatia. C'è bisogno di lei.

- Aspetta qui. Non muoverti. - le dico, correndo verso la porta della palestra.

- Ma dove vai? -

- Lo vedrai. - sono sul punto di uscire dalla stanza, ma un dubbio mi assale. Un dubbio a cui devo dare una risposta al più presto possibile.

- Melody? -

- Dimmi. -

- Quando hai ottenuto il totem, cos'è successo esattamente? - la ragazza mi guarda con aria interrogativa. Sembra abbastanza restia a raccontare la sua storia. - Oh, tranquilla. Non volevo essere invadente. - faccio per andarmene, ma la voce di Melody mi ferma: 

- Aspetta, Liz. In effetti, ho bisogno di parlarne con qualcuno. - confessa, giocherellando con uno degli anelli che ha sulle dita.

- Ti ascolto. - mi avvicino a lei, sentendo il suo racconto.

- Avevo quindici anni quando iniziai a lavorare al pub Muses. La stessa età di mia madre quando rimase incinta di me. Per quanto ardentemente lo avessi desiderato, non l'ho mai conosciuta, e per anni ho creduto di essere il suo più grande errore. Sono stata cresciuta in un orfanotrofio, più precisamente in un istituto religioso, ma separata dagli altri bambini e sotto stretta sorveglianza della Madre Superiora. Spesso provai a chiederle dei miei genitori, ma da lei seppi solo che "tuo padre era un criminale, e tua madre una sgualdrina; Nostro Signore però li ha chiamati a sé, sono morti in un incidente stradale, guida in stato di ebbrezza." Testuali parole. Provai a racimolare informazioni sulla mia famiglia, ma, non potendo uscire dall'orfanotrofio, ero costretta a chiedere alle convesse, che però cercavano di evitarmi il più possibile. Era come essere tagliati fuori dal mondo, fuori da ogni piccola cosa. Prima dei sette anni, non mi ero mai resa conto della solitudine che mi circondava, e soprattutto per quale motivo. Ero separata sia dagli altri bambini che dalle suore, ero l'unica che avesse una stanza singola e che non potesse mai lasciare l'istituto, ma non capivo il perché. Seppi la verità da una convessa, una figura avvolta nel mistero, di cui non sapevo nulla. Fu la prima a raccontarmi veramente di mia madre. Mi disse che si chiamava Elodie, e che era figlia unica in una ricca famiglia borghese. In giovane età, durante una passeggiata nei terreni di famiglia, strinse amicizia con uno dei braccianti, Amir; era poco più di un ragazzino, un immigrato illegale che riusciva a vivere attraverso la misera paga del lavoro nei campi. Cominciarono a frequentarsi e, temendo la reazione dei genitori di lei, a vedersi di nascosto. Quando i miei nonni scoprirono della loro relazione, allontanarono mio padre da quei campi e reclusero in casa mia madre. Fu in quel periodo che scoprì di essere incinta. Essendo però molto giovane e ancora nubile, per evitare di recare disonore alla famiglia, i suoi genitori decisero di nascondere la sua gravidanza, facendole passare i nove mesi in un istituto religioso. Era una specie di orfanotrofio, ma solo per bambini bianchi e appartenenti alla religione cristiana. Poiché l'istituto era finanziato dai miei nonni, pur essendo io mulatta, decisero di chiudere un occhio sulla faccenda. Subito dopo il parto, mia madre fu allontanata da me, e il giorno dopo fu riportata a forza dalla sua famiglia. Non fece nemmeno in tempo a darmi un nome e, non essendo stata riconosciuta né da mio padre né da mia madre senza che potessero fare nulla, le suore all'istituto cominciarono a chiamarmi con lo stesso nome di mia madre, Elodie. La convessa mi raccontò, inoltre, che aveva aiutato Elodie e Amir a rimettersi in contatto e che avevano deciso di scappare insieme. - fa una pausa, in cui non smette mai di far passare un anello da un dito all'altro. 

EXODUSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora