XIV - Come la risacca del mare

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Camminavo con una semplice tristezza sul viso.
Era bello provare un'emozione così pura, così banale: la tristezza.
Ero triste perché Andrew mi aveva trattato in quel modo, ero triste perché sentivo dentro qualcosa di più grande di me che non riuscivo a spiegare, ero triste perché inspiegabilmente avrei solo voluto un suo abbraccio.

Scossi la testa.
"Non farti questi castelli strani" mi dissi, "non c'è tempo per queste cose."

Continuai a camminare verso la stanza, speravo che non ci fosse nessuno o che stessero già tutti dormendo.

Arrivai dalla porta ed entrai; erano tutti lì.

Chris dormiva su un fianco, respirando piano, con il viso rivolto verso il muro, i fratelli Clark giocavano a carte, mentre un giovane dal corpo più robusto e arrotondato, alzò per un attimo gli occhi su di me e mi guardò in cagnesco. Non ci eravamo presentati il primo giorno, mi aveva detto che non sarei durato neanche un giorno. Eppure mi sembrava ci fossimo rivisti, che mi avesse parlato di nuovo ma non ricordavo, la mia mente era troppo annebbiata nei primi giorni, non riuscivo a distinguere i volti delle persone.

Mentre tentavo di capire dove avessi visto quel soldato, Aaron si avvicinò a me, tutto ad un tratto.
"Che cazzo... C-come fai a non avere più niente?!"
Io lo guardai confuso, indietreggiando verso la porta.
"Sulla faccia! Dieci minuti fa avevi tutti i lividi e i graffi... e ora stanno sbiadendo" il suo tono si stava alzando.
Non avevo idea di come fosse possibile, non mi ero più guardato allo specchio. Continuai a indietreggiare fino a poggiare la schiena sulla porta.
"È uno scherzo?"
Alzò una mano sul mio viso, si protrasse verso di me.
Andai in panico. Ebbi paura.
Strizzai forte gli occhi e mi portai le braccia al volto, per proteggermi. Voltai appena il collo da un lato e sperai che non mi avrebbe fatto troppo male.
"Ehi! Non voglio farti niente" la sua voce era dolce, flebile. "Voglio solo guardare..."
Abbassai le braccia, deglutii.

Lui avvicinò piano una mano alla mia guancia, al mio zigomo, alla mia tempia e delicatamente, con le sue dita morbide come lana, iniziò a sfiorare appena, casto e rispettoso, la mia pelle tesa come una corda di violino. Non c'era violenza o cattiveria nel suo tocco, solo curiosità e stupore, ingenuo e disilluso stupore. Ero come un animale ferito a cui avvicinarsi per capire l'entità del danno e trovare la ferita, spaventato, traumatizzato: Aaron si avvicinava a me per semplice purezza d'animo, come un bambino esuberante che si avvicina a un caprioletto, abbandonato su una rupe, punzecchiandolo e sperando non sia morto.

"Lascialo stare" disse suo fratello Sasà dietro di lui. Lo afferrò delicatamente per un braccio e lo tirò via. Aaron mi donò un mite sorriso appena accennato colmo di angoscia e compassione, prima di tornare a giocare a carte col fratello.

Mi diressi verso il letto con passo incerto.

Quel soldato dallo sguardo truce continuava a fissarmi. Mi avvicinai a lui;
"Non ci siamo presentati. Io sono... Luce."

Nella stanza si fece silenzio: il respiro leggero di Chris si interruppe e lo strofinio delle carte dei fratelli tacque.

"Frocio" rise tra sé e sé quel cavernicolo; era ovvio. Era lui quell'omone che nelle doccia mi aveva deriso la prima sera, era lui che mi aveva fatto ricordare quanto difficile fosse vivere in un mondo in cui qualunque cosa tu possa fare rimarrai sempre e soltanto un "ricchione" per alcuni, perché i tuoi modi sono troppo effemminati o non sei conforme allo standard dell'uomo medio. Era lui che mi aveva fatto tornare tutto quel dolore alla mente.

Una rabbia sorda mi incominciò a salire su per l'esofago. Non potevo escludere che lui fosse uno degli aguzzini che mi avevano massacrato quella notte; era più che logico pensare fosse uno di loro. Preso alla sprovvista, alla rabbia, si mescolò il panico, si mescolò il ricordo di quel dolore cieco, di quel rumore di ossa rotte, del sangue caldo che scorre sulle guance e nello stomaco. La neve fredda sul viso, la speranza frantumata.
"Sei stato tu!" Sbottai urlando, "lo so! Lo so!"
"Ma che cazzo vuole sto qua?" disse rivolgendosi ai suoi compagni di stanza che osservavano la scena in religioso silenzio.
"Smettila. So cosa hai fatto, mi hai massacrato di botte..."
"Ma se non hai neanche un segno!"
"Mi hai massacrato di botte e mi hai lasciato lì come una cazzo di bestia da macello! Tu e non so chi altro" dissi rivolgendo uno sguardo emblematico ai Clark. Il mio tono di voce era sempre più alto. "Mi hai spezzato il braccio! Ma non sei riuscito ad ammazzarmi, no. Non ci sei riuscito, brutto pezzo di merda."
Scattò dal letto come una molla.
"Vedi di calmarti, piccolo frocetto, prima che ti spacco davvero la faccia."
"Vai! Vai! Sono pronto. E stavolta ammazzami davvero. Potrai spaccarmi la faccia, chiamarmi frocio, ma non mi fai paura. Sei solo un fottuto omofobo di merda! Un fottuto omofobo di merda!"
Aaron mi prese per un braccio allontanandomi da quell'uomo.
"Lasciami! Lasciami! Mi sono rotto il cazzo di queste cose. Non permetterò più a nessuno di farmi del male. Lo spacco di botte!"

Le mie urla e le mie imprecazioni si sentivano sin fuori il corridoio. Ero fuori di me, un Orlando impazzito, avevo perso il senno. Tutta la stanchezza e la negativa energia psicologica che mi portavo dietro da giorni, si stavano riversando su quel soldato di cui non sapevo neanche il nome e che incolpavo per la sua intrinseca ignoranza e chiusura mentale.

Con la vista annebbiata dai fumi dell'ira e le sinapsi imbrattate dal sonno, persi la concezione di quello che stavo dicendo; sentì dei passi pesanti avvicinarsi alla porta e spalancarla con poca delicatezza.

Andrew irruppe nella stanza. Cadde un silenzio di tomba. Tutti si alzarono dalle brande, si portarono una mano alla fronte e si misero sull'attenti. Io rimasi al centro della stanza, immobile con il viso contrito per la rabbia, le mani che tremavano, le guance infuocate. Il tenente Costas – come si appellarono a lui gli altri – piombò su di me senza guardare in faccia nessuno, mi tirò per un polso e mi strattonò via, fuori dalla porta, chiudendola alle sue spalle. Con una presa indelicata mi afferrò la spalla e mi scaraventò al muro, le sue dita affondarono nella mia carne, si avvicinò al mio viso ancora, sentì il suo respiro sulla bocca ancora, il suo calore ancora.

Le sue labbra morbide come seta vermiglia mi fissavano infuriate e mi sussurravano parole che non riuscivo a capire;

"Ti avevo detto di non fare cazzate."

Il suo corpo ardeva di rabbia ad un solo centimetro dal mio. Vibravo. Vibravo in simpatia con le onde sonore della sua voce e della sua rabbia, quasi come se quella stretta, quelle parole potessero sciogliere il mio cuore di ghiaccio e farmi tornare in vita.
Non riuscivo a rispondere. Ero impietrito dalla sua furia e dai suoi occhi più scuri della penombra che ci circondava, gelidi, spettrali.

"Mi stai ascoltando?!" mi urlò, all'orecchio.

Le parole mi si impastarono in bocca.

"S-scusa, Andrew" tentai. Dalla mia bocca non uscì alcun suono. "Scusami. Ci sto provando, ci sto provando."

Mi afferrò di nuovo per il polso; la sua stretta faceva male quanto una tagliola per orsi. Non opposi resistenza, mi abbandonai alla sua rabbia come in una giornata d'estate, in quel suo mare così torbido, mi lasciai cullare dalle sue onde agitate, con l'acqua che entra nelle orecchie e il blu più sconfinato davanti agli occhi. Sentivo nella mente una melodia lontana, triste e tutto intorno a me era confuso e sfumato. Non mi importava quanto mi trattasse male o quanto aspra fosse la sua voce, ero attirato da lui come la risacca del mare.

Non mi importava di niente in quel momento.

Aprì il portone della caserma e mi spinse fuori. Il freddo era insostenibile.
"100 giri, soldato!" ordinò.
Lo osservai confuso per qualche istante. 100 giri di cosa?
"100 giri!" urlò, portandosi le braccia al petto.

Iniziai a correre. Iniziai a correre in cerchio davanti a lui che dagli scalini della caserma mi osservava impassibile, freddo come una stalagmite.
Il ghiaccio mi penetrava nella pelle, il vento della notte mi sputava gelo in faccia e il suo sguardo, pesante quanto il piombo, mi trapanava il petto.

Correvo. Correvo ancora, spinto solo dall'adrenalina e dall'inerzia della stanchezza; il mio corpo non poteva reggere altra fatica o freddo per quel giorno.
Caddi, scivolai sulla neve. La mia schiena debole e irrigidita dalla fatica batté forte sul terreno; mi sembrò di sentire, in lontananza, il suono di una grande campana in bronzo che scoccava la mezzanotte. La nuca poggiata a terra e il naso verso il cielo. Mentre una lacrima calda scioglieva il freddo sulla mia guancia e il mio corpo giaceva inerme a terra, quel cielo sconfinatamente nero e senza stelle iniziò a lacrimare anch'egli, e immediatamente le sue lacrime si fecero neve: neve tiepida che mi si posava delicata sul corpo, quasi a proteggermi da un mondo crudele, quasi a ripararmi dal gelo di un destino inspiegabile.

Cosa avevo fatto di male per meritarmi questo? Perché ero finito in quel posto dimenticato da Dio?

Voltai appena la testa verso la caserma. La neve cadeva debole al suolo e cadendo debolmente mi lasciava intravedere la figura di Andrew, immobile, distante, che da lontano osservava i fiocchi adagiarsi sul mio corpo morto.

Perché mi faceva questo? Cosa voleva da me?
Cosa gli avevo fatto di male?

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