XXXVIII - Deserto di dune azzurre

55 4 7
                                    

La testa mi pulsava forte, come se una lancia mi perforasse la fronte da tempia a tempia. Sasà aveva preso a fissare il vuoto, senza dire più niente. Decisi di lasciargli il tempo di metabolizzare i suoi pensieri e farsi consolare dal silenzio, e abbandonai quel lazzaretto di tristezza per raggiungere Andrew.

Uscii dalla stanza. Il tenente mi aspettava a braccia conserte, con la schiena poggiata al muro e gli occhi socchiusi.
Mi avvicinai a lui; non appena gli fui davanti schiuse i suoi occhi di zaffiro. La sua presenza maschile inondò la mia mente intorpidita dalla stanchezza. Odi et amo.

"Tutto bene?" chiese.

"No." Riposi distogliendo lo sguardo. "Che ne sarà di lui?"

"Starà bene, fidati."

Lo guardai in viso, era così bello.

"Cosa dovevi dirmi?"

"Non qui." Disse brusco. "Vieni con me, per favore." Si addolcì.

Uscimmo all'aperto. Il cielo quella mattina si stava coprendo di nuvole d'argento. La brezza che spirava era fredda e sgradevole. Seguì Andrew senza porre altre domande: ci avvicinammo al cancello del campo e poi svoltammo a destra arrivando ad una discesina che conduceva ad un parcheggio in sterrato, nascosto dalla vegetazione  che lo avvolgeva nel buio. Mi guardai intorno: una ventina di macchine nere, alcune jeep e dei macchinoni e pulmini corazzati che attendevano in silenzio il momento dell'azione. Mi vennero i brividi nel vedere quei veicoli, mi feci di ghiaccio. Andrew camminava con il suo nuovo passo robotico senza guardarsi indietro mentre io continuavo a tremare ad ogni spiffero di pelle d'oca che mi sfiorava le braccia. Una fitta dolorosa mi colpì la coscia destra, proprio lì dove avevo conficcato la siringa in quella notte di panico. La strinsi forte continuando a camminare e digrignando i denti. Arrivammo in fondo al vialetto, un'auto nera dalle linea affilate e i finestrini in vetro azzurro attendeva scalpitante le chiavi che Andrew teneva in mano. Si voltò verso di me.

"Ha il cambio automatico, non ti preoccupare" scherzò.

Cercai di nascondere la mia espressione di dolore e aprii la portiera ma non appena poggiai lo sguardo sui sedili in pelle e sul volante che svettava dal lunotto, un crampo lancinante mi spezzò il polpaccio e quella strada nera e sempre uguale mi tornò davanti agli occhi. Poggiai una mano sulla fiancata dell'auto, sconquassato dal ricordo di quella notte e mi mancò il respiro, annegai nell'aria. Mi sembrava di sentire di nuovo il ticchettio della pioggia sul vetro, il rumore dei tergicristalli che spazzano furiosamente il parabrezza e il rombo del motore spinto al massimo. Mi congelai, mi tremava il cuore.

"I-io... non voglio. Non ce la faccio." Dissi spaventato.

Andrew girò intorno all'auto e si avvicinò a me.

"Merda. Scusa. Sono un coglione. Andiamo via. Vieni."

Disse visibilmente dispiaciuto. Mi portò un braccio intorno alla schiena sorreggendomi per le braccia e con modi gentili mi accompagnò il più distante possibile da lì.

"Scusami davvero..."

Mi sedetti sul terreno, su una zolla di terra morbida poco distante. Cercai di riprendere il controllo del mio respiro.

"Non è reale." Mi ripetevo. "Non è reale."

Quando le gambe smisero di tremare. Guardai Andrew in viso: la mia fronte era inondata di sudore e le gote erano fredde e umide.

"Sto bene... scusa."

Si sedette al mio fianco.

"Se vuoi posso darti delle pastiglie per gli attacchi di panico..."

LuceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora