XXVIII - Sonno bugiardo

59 4 4
                                    

Dopo quella notte le nostre giornate vennero alienate dalla ripetitività della missione.
Salivamo sul camioncino al mattino, ci dividevamo in zone e perlustravamo la foresta fino a tardo pomeriggio.

Camminavamo da soli, con una mappa in mano e un dosimetro, annotavamo il valore delle radiazioni e speravamo di non incontrare nessuno. Poco prima di partire, il sergente Del Greco ci diede una di quelle mostruose armi allo iodio, io rifiutai. Mi guardò storto e non disse nulla, poi, prima che mi inoltrassi nella foresta, si avvicinò e mi diede una pistola a proiettili color carbonio, aveva dei graffi sull'impugnatura e alcune macchie di polvere da sparo sul grilletto.

“Ti farai uccidere” disse porgendomi l’arma.

Lo ringraziai. Decisi di accettare la pistola, nonostante l’idea di uccidere qualcuno mi facesse venire nausea.

Il mio viaggio nell'oblio sfocato dalla follia ebbe inizio in quel preciso istante. Mi lasciai il sergente alle spalle e salutai con un occhiolino i fratelli clark. Entrai nella foresta.
Ogni minuto in quel posto mi faceva venire i brividi. Era tutto abbandonato, il silenzio spaccava i timpani e la vegetazione era tornata a coprire tutto ciò che l’uomo aveva creato. Ogni tanto si sentiva il cinguettio di qualche uccello, flebile e distante, o un fruscio di fronde e foglie che portava un vento caldo e metallico.
Avevo solo un compito: segnare il livello di contaminazione sulla mappa e andare via il prima possibile. Nel caso avessi incontrato dei capanni o delle case, dovevo assicurarmi che non ci fosse nessuno.

Il primo giorno trovai un cottage rustico e diroccato ai margini della foresta. Mi avvicinai, era coperto di edera e foglie gialle. Pensai alle persone che un tempo vivevano lì, in mezzo al nulla. Era rimasto tutto come lo avevano lasciato: i letti disfatti, le finestre aperte, le pentole nel lavello.
C’era ancora odore di vita, vita che era stata scacciata via.

Non c'era nessuno, per fortuna.
L'idea di incontrare qualcuno in quel posto spettrale e avvelenato dalle radiazioni mi faceva andare in panico.

Mentre uscivo dal cottege, però, sentì un rumore. Impugnai la pistola, smisi di respirare e mi voltai di scatto. Vidi un ombra che si muoveva dietro la porta, misi il dito sul grilletto, sparai. Era una rondine dal manto color cobalto. Cadde a terra sente emetter alcun suono. Mi tremavano le mani. L’avevo uccisa. Vomitai per terra e caddi in ginocchio davanti al primo cadavere che mi sarei lasciato dietro.
___

Le giornate passavano lente e camminare in quelle foresta deserte era surreale. Non c’era niente. Gli alberi erano tristi, l’erba era sottile e l’aria era talmente rarefatta da graffiare la pelle. Vivevo con il costante terrore di incontrare qualche nemico in mezzo alla vegetazione. Avrei dovuto sparare di nuovo. Avrei dovuto uccidere un uomo se lui non mi avesse ucciso per primo. Ero terrorizzato. Di notte non dormivo per l’adrenalina e per l’ansia della giornata. Mi passavano costantemente davanti agli occhi i numeri di quei dosimetri. Il gusto di metallo in bocca. La nausea in prossimità di un ruscello o a una pozza d’acqua. Il terrore di inciampare sul terreno radioattivo o di ferirsi con qualche arbusto.
Avevo iniziato a sentire delle voci in mezzo agli alberi, come dei canti, come melodie segrete. Voci sottili.

Stavo perdendo la testa.

Non sapevo se il tempo continuasse a scorrere o se si fermasse quando mi aggiravo per quei luoghi, sapevo solo che non appena iniziava a fare buio potevo uscire da quel labirinto di voci e tornare all'accampamento. Il sergente ritirava le mappe e si fermava a parlare con ognuno di noi; prima prendeva appunti e segnava ogni dettaglio che gli raccontassimo, poi ci chiedeva se stessimo bene, se avessimo nausea, se ci bruciasse la pelle. Fino a quel momento nessuno di noi aveva avuto sintomi di avvelenamento radioattivo.
Quella zona non aveva un livello di tossicità molto alto.

Il sergente era soddisfatto. In pochi giorni ce ne saremmo potuti andare. Probabilmente quella foresta sarebbe potuta essere il corridoio meno radioattivo per la Russia.
___

Ultima mattina. Non so quanti giorni fossero passati da quando incominciammo quella missione. Le notti mi sembravano tanto interminabili quanto i giorni passati nella foresta. Non riuscivo a chiudere occhio, non parlavo ne con Sasà ne con Aaron, ne con nessun altro. Fissavo il vuoto e speravo di venirne compatito.

Quella sera saremmo potuti tornare al centro generale, il sergente disse che tutti i settori della foresta erano stati controllati, ne mancavano solo alcuni.

Mi svegliai con un terribile presentimento, mi facevano male le gambe e mi girava la testa.
La sezione che mi era capitata era al centro della vegetazione, la parte più interna ed oscura. Il livello di radiazioni lì era molto alto, il dosimetro sulla tuta vibrava senza sosta, dovevo andarmene il prima possibile. Girai intorno al cuore della foresta, senza avvicinarmi, e segnai sulla mappa: HRD - high radiation doses.
Delimitai il perimetro: una zona di circa 1 km di raggio. Il mio lavoro era finito, non potevo fare altro. Quella zona era out of limits.

Tornai indietro, senza guardarmi alle spalle, camminando il più veloce possibile per allontanarmi da quel silenzio infernale. Il camioncino corazzato attendeva il ritorno di tutti i soldati. I fratelli Clark non erano ancora arrivati.

Il sergente mi vide, mi chiese cosa ci facessi lì a quell’ora.
“Il centro è inaccessibile, guardi” gli mostrai la cartina con il valore dei dosimetri.
“Deve esserci qualcosa che produce radiazioni” studiò a lungo la cartina, senza prestare molta attenzione a me. Si portò una mano al mento e sfregò la barba ispida e nera che gli era cresciuta sul viso.
“Mi dispiace sergente Del Greco, io non sapevo cos’altro fare…”
Lui alzò lo sguardo quasi sorpreso.
“Hai fatto il tuo dovere soldato. Riposo. Puoi aspettare i tuoi compagni sul pulmino. Torniamo indietro.”
Mi portai una mano alla fronte e mi dileguai. Salì sul veicolo e mi misi seduto in fondo. Appena toccai il sedile le gambe iniziarono a tremarmi, la tensione di quei giorni si stava sciogliendo come un ghiacciolo. Appoggiai la testa al vetro del veicolo e osservai per qualche attimo il sergente; aveva un’espressione concentrata e preoccupata, ricontrollava le mappe ancora e ancora e scarabocchiava parole su decine di fogli bianchi. Stava facendo un ottimo lavoro, si era preoccupato della nostra salute e aveva cercato di tirarci su il molare. Era stato umano.

Gli occhi incominciarono a farsi pesanti; non dormivo da giorni e per la prima volta mi sentivo al sicuro. Ero convinto che quella missione sarebbe finita a breve e che non avrei più dovuto vivere 12 ore al giorno nel più opprimente panico. Ero sicuro che non sarei più tornato in quella maledetta foresta.

Mi lasciai cullare dal sole che entrava dal vetro appannato in un docile sonno bugiardo.

LuceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora