XXX - Fiori di erica e alisso

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Le tenebre avvolgevano la stanza, il silenzio inzuppava l'aria e il sangue continuava a colarmi sul viso da non so dove. Presi un panno che trovai nello zaino e lo imbevetti d'acqua. Cercai di togliermi tutto quel sangue di dosso.

Fuori, le fronde avvelenate si muovevano piano a ritmo del vento, bisbigliando parole cupe sui muri della casupola. Gocciava appena, giusto una spolverata di pioggia acida. Tornai in attesa. Fissavo il buio davanti a me, senza muovere un muscolo, lasciando il sudore rossastro scorrere sulle guance e cadermi sui vestiti.
Goccia dopo goccia. Minuto dopo minuto. Fino a diventare ore forse, o solo attimi.

Quando i miei occhi riuscirono ad abituarsi all'oblio della sera, pensai che si fosse fatta mezzanotte. Il buio smise di diventare più nero e la luna prese ad accarezzarmi le gote.
Strizzai gli occhi, la pistola stretta tra le mani. Davanti a me un tavolo rotondo con dei merletti bianchi che si affacciavano dai lati del ripiano, delle sedie rustiche e un lampadario in vetro colorato. Alla mia destra delle cornici abbandonate a terra, vetri rotti, piccoli ritagli di riviste. Afferrai una foto dai margini appena bruciacchiati: c'erano due uomini dai capelli chiari, il viso squadrato e duo occhi tanto azzurri da riuscire a vederli anche al buio. Al loro fianco, una donna dai lineamenti nordici e un sorriso triste, bellissima nella sua malinconia.

Mentre strizzavo gli occhi per osservare quella foto, qualcuno mi toccò la spalla. Sobbalzai terrorizzato.
"Scusa... non volevo spaventarti."
"S-Sasà. Stai meglio?" chiesi io con la gola secca.
"Mi fa malissimo la testa" disse portandosi una mano alla fronte e chiudendo gli occhi, "ma credo di sì..."

Annuì rasserenato.

"Dove siamo?" chiese poi.
"Non lo so. Credo sia il settore ovest. Ricordo di aver controllato questa casa il primo giorno. Dobbiamo andare via. Devo portare le mappe."
"Quali mappe?"
"Il sergente..." mi bloccai.
Il sergente Del Greco era morto davanti ai miei occhi. Non riuscivo più a parlare.

"Luce" disse Sasà poggiandomi una mano sulla schiena. "E' la guerra."

Non lo ascoltai. Non mi interessava. Non avrei mai accettato quella risposta per rendere normale un abominio simile. Strinsi forte la pistola nella mano sinistra.

"I-io... non so neanche c-come si chiamasse di nome" dissi con voce spezzata. Gli occhi mi si stavano facendo lucidi.
"Alberto. Alberto Del Greco."

Una lacrima densa mi rigò la guancia.

"Alberto..." sussurrai. "I-io... devo portare le mappe che mi ha affidato." Mi schiarì la voce. "Dobbiamo tornare indietro. Fosse l'ultima cosa che faccio.

Sasà si mise seduto stendendo le gambe al mio fianco. Poggiò le braccia sulle ginocchia e si strizzò la fronte con le dita.

"Non riesco a camminare, Luce. Devi andare tu. Porta le mappe."
Scattai di colpo, mettendomi in piedi.
"Non ti lascio qui!" sbottai.
Lui mi fissava immobile. I suoi occhi erano più scuri del buio che ci circondava.
Mi sedetti al suo fianco sul divano.
"Non ti lascio qui." Ripetei.

Poggiò la schiena sui cuscini impolverati. Le nostre spalle si sfiorarono non di più che per un filo d'erba. Fissavamo lo stesso mucchietto di vuoto, ci accecava la stessa oscurità e lo stesso silenzio; non si sentiva nessun rumore se non le gocce di pioggia che ticchettavano sui vetri e il rombo del cuore di Sasà. Batteva così veloce. Mi sembrava di poterlo toccare con un mano e stringerlo, come per coccolarlo, per calmarlo. Batteva forte, batteva di vita.

"Qual è il tuo nome, Sasà?" ruppi il silenzio.
Lui si voltò verso di me con aria confusa.
"Qual è il tuo vero nome? Io non lo so. E se..."
"Salvatore. Aaron mi ha sempre chiamato Sasà, da quando eravamo piccoli. Riusciva a dire solo quelle lettere. Spero stia bene." Si irrigidì.
"Sarà ... sarà sicuramente al centro generale. Torneremo da lui."

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