XXXI - Lame di luce

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Sasà si era rimesso a dormire: le sue condizioni di salute non erano delle migliori, gli girava la testa e respirava ancora a fatica. Io continuavo a fissare il buio che ci circondava sperando di trovare un'idea per andare via da lì e tornare al campo generale.

"Potremmo andare a piedi." Pensai.

"E' l'unico modo ma no. No. Sasà non riesce a camminare. Ci vedrebbero. Morti subito. Poi le radiazioni, la strada..."

Doveva esserci un altro modo; pensai di tornare indietro, al camioncino – o a quello che ne restava – e vedere se c'era ancora qualche macchina dei bianchi da poter rubare.

"A quest'ora se le saranno già portate via, saranno arrivati i rinforzi. I cadaveri presi. E i cadaveri dei nostri? Il cadavere del sergente Del Greco? Di Alberto. Chi lo avrebbe preso? Chi gli avrebbe dato una degna sepoltura? Cosa posso fare io? Devo tornare indietro. Non posso. Era sotto il camioncino. Stava per esplodere."

Un fiotto di nausea e rabbia mi salì in gola.

"Moriremo qui" mi balenò in mente. Non sapevo cosa fare, non avevo più idee. La pioggia continuava a bagnare la casa e alcune gocce sfacciate cadevano dalle travi in legno del soffitto. Mi tirai su stendendo le gambe e alzai le braccia verso quel filo di pioggia. Vi posai una mano a coppetta sotto: l'acqua era fresca, rifletteva la luce della luna e bruciava, sì, ne ero sicuro, bruciava. Ritrassi la mano con un gesto veloce e l'asciugai con la manica della divisa. Il mio palmo era caldo e arrossato. Anche la pioggia era maledetta in quella foresta. Avevo paura.

Mi spostai e mi avvicinai a Sasà. Avvolsi il suo corpo accaldato con la divisa in fibra di vetro, cercando di coprilo al meglio. Lui si mosse appena. Il suo respirò accelerò improvvisamente. Una lama di luce entrò dalla finestra. Il mio cuore salì in gola. Svegliai Sasà senza fare rumore, gli tappai la bocca.

"Abbiamo ospiti." Sussurrai.

Lui sbarrò gli occhi, si mise in piedi.

"Cazzo."

Ci stendemmo a terra. Fuori si sentivano i rumori delle gomme impantanate nel fango, passi inzuppati seguiti da altri fasci di luce che investivano la casa.

Sasà si mise in piedi, si avvicinò al camino e afferrò un attizzatoio dalla punta acuminata e arrugginita. Barcollava vistosamente.

Presi in mano la pistola, controllai i proiettili.

Dovevo portare le mappe.
Dovevo riportare Sasà dalla sua famiglia.
Dovevamo sopravvivere.

Mi avvicinai alla finestra e diedi un'occhiata. Erano due macchine, due Jeep bianche come quelle che ci avevano attaccato. Alcuni soldati erano già scesi e si guardavano intorno, i fari dei veicoli illuminavano la pioggia battente.

Stavano per entrare. Dovevamo essere pronti.

Ci nascondemmo dietro al divano. Tirai su la zip della divisa del mio compagno, gli misi il cappuccio e gli feci cenno con la testa indicando la porta sul retro. Saremmo usciti da lì, avremmo rubato una macchina. Era la nostra unica speranza. Sasà annuì.

Il mio stomaco era sotto sopra, continuavo a tremare.

"Lo zaino!" lo stavo per dimenticare. Gattonai intorno al divano e lo afferrai con la punta delle dita. I soldati erano sempre più vicini. Lo tirai con un gesto veloce e tornai a nascondermi dietro al divano poco prima che la porta si spalancasse. Mi misi lo zaino sulle spalle.

Entrarono prima le luci delle torce e il bagliore verde delle loro pistole, poi loro, con passo felpato. Dovevano essere tre o quattro. Aguzzammo le orecchie. Uno di loro salì per le scale, gli altri si divisero. Condividevamo gli stessi respiri. Vidi una divisa bianca riflessa nel vetro della finestra, si avvicinava al divano. Dovevo fare qualcosa, dovevo sparare. Sentivo la sua presenza, era a pochi passi da noi. Misi il dito sul grilletto. Cercai gli occhi di Sasà per capire cosa fare ma lui fissava dritto davanti a sé, immobile. I passi del soldato erano lenti e accorti, era esattamente davanti a noi. Sasà si mise in piedi e brandendo con entrambe le mani l'arnese in ferro, glielo piantò dritto in fronte, fracassando la maschera nera e trapassando il suo cranio da parte a parte. Cadde in avanti, sui cuscini, emettendo un gemito strozzato. L'attizzatoio entrò più in profondità. Scattai in piedi, pieno di adrenalina. Sasà prese l'arma all'uranio con un gesto veloce. Gli altri soldati si avvicinarono dopo quel rumore. Iniziammo a sparare da dietro al divano. Un panico maniacale mi divorava le viscere. Un mio proiettile colpì il braccio di uno di loro e poi di nuovo la spalla. Sasà sparava fasci verdi senza esitazione. Loro facevano lo stesso. Il divano davanti a noi implose dopo il primo colpo, ardeva in un fuoco verde radioattivo. Vidi con la coda dell'occhio gli altri soldati raggiungere la casa. Era il momento di andare. Sparai qualche colpo senza bersaglio e tirai Sasà verso la porta alle nostre spalle, sfondandola con una spallata. Eravamo all'aperto. La pioggia batteva forte.

"Attento alla pioggia!" urlai.

Sasà continuava a sparare. Le scie di fuoco verde stavano corrodendo la casa a velocità esponenziale. Corremmo. Corremmo sotto la pioggia. Non mi guardai indietro, vedevo solo i lampi verdi ai nostri fianchi e la pioggia acida che mi scorreva sulla divisa. La macchina era a pochi metri. C'eravamo quasi.

"Corri Sasà! Corri!"

Mi nascosi dietro la portiera dell'auto blindata e sparai qualche colpo alle spalle del mio alleato. Lui correva con un'espressione di dolore e fatica sul viso. Aprì la portiera, spinsi Sasà dentro e la chiusi forte alle mie spalle.

"Andiamo!" urlai.

"Non posso guidare." Disse Sasà, guardandosi le mani. Erano viola e piene di vesciche.

"Ma io non so guidare!" dissi mettendomi davanti al volante.

"Non so guidare! Non so guidare!" stavo andando in panico.

Premetti un pulsante con scritto START. Non sapevo cos'altro fare, i tergicristalli presero a muoversi furiosamente spazzando via le gocce di pioggia. I soldati si avvicinavano spediti. Le lame verdi colpivano l'auto e rimbalzavano scoppiettando in affilate scintille.

"La frizione!" tentò di dire Sasà.

"Che cazzo è la frizione?!"

Era finita. Stavano per raggiungerci, eravamo morti.

Sasà mi afferrò la gamba e mi fece premere un pedale sulla sinistra, ingranò la prima. Mi si strappò la fronte. Avevo già guidato, sapevo guidare. Ricordavo! Accelerai e lasciai la frizione. La Jeep sfrecciò in mezzo al fango a velocità folle. Investì quei soldati dalle tute bianche. I loro corpi scivolarono sul cofano e sul parabrezza, volarono via come piume. Sterzai tutto a destra, cambiai marcia, accelerai, accelerai ancora.

"Li ho investiti! Li ho uccisi!" ero in preda al panico. Strillavo. Non riuscivo a respirare. Mi veniva da vomitare.

"Va tutto bene! Va tutto bene! Guida Luce, guida." La voce di Sasà mi tranquillizzava. "Accelera ti prego. Accelera."

Il sentiero della foresta era stretto e pieno di fango. Gli alberi ci inseguivano assettati di sangue e io urlavo, urlavo in preda al panico con il piede sull'acceleratore schiacciato sino in fondo.

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