VII - Sangue nero e confusione

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Quell’incontro notturno con Chris mi aveva lasciato una piacevole sensazione sotto la pelle, come un lieve tepore, una dolce carezza.
Forse in quella caserma non erano tutti uguali.

Continuai a camminare piano in quei corridoi impolverati; passo dopo passo, i miei pensieri si infeltrivano sempre di più. Oltre a quella poesia, ero riuscito a ricordare anche che fumassi, che annegavo la confusione dei miei pensieri in quel fumo bianco.
Mi chiedevo se avessi potuto ricordare anche altri dettagli più significativi. Volevo tornare a conoscere tutte quelle mie sfaccettature che ormai erano naufragate in quel torpore di dimenticanza che mi avvolgeva. Ero stanco di sentirmi come un vialetto sterrato che non conduce da nessuna parte, arido, abbandonato, privo di vita. Desideravo con tutto me stesso riportare alla mente i miei colori e le mia abitudini. Mi tornarono alla mente le parole dei dottori:

"Per la memoria non c’è niente da fare."

Eppure qualcosa stava incominciando a riaffiorare. Forse si erano sbagliati.

Continuai a vagare come un fantasma tra le porte chiuse dei dormitori. Non si sentiva nulla se non i miei passi sulle assi in legno scricchiolanti, i soffi di vento freddo che promettevano tempesta fuori e i sussurri consolatori della luna che illuminavano quel tetro edificio.

Mi avvicinai alla finestra in fondo al corridoio. Misi una mano sul calorifero posto sotto di essa: gelido.

Guardai fuori, oltre le grate. Aveva appena ripreso a nevicare, i fiocchi si rincorrevano agitati in quella tormenta notturna, furiosa sul nascere. Il gelo aveva già iniziato ad attecchire al suolo ancora infreddolito per la neve del giorno prima.

Sospirai.

Un gelido rivolo di paura mi accarezzò il collo, il cuore incominciò a battermi forte. Poggiai una mano sul vetro freddo; sentivo qualcuno alle mie spalle, sentivo un respiro caldo, affannato. Iniziai a tremare.

Mi voltai appena, lentamente. C’era troppo buio per vedere oltre qualche metro, ma ero sicuro ci fosse qualcuno.
“C-c’ è qualcuno?” tentai di dire.

A quel respiro si sommarono dei passi vellutati, li sentivo avvicinarsi verso di me. Arretrai appena, spaventato, sbattendo la schiena sul calorifero, senza poter fuggire.

I miei occhi scorsero delle figure massicce grazie ai raggi di luna che ne illuminavano i contorni. Dovevano essere dei soldati, mi sentii più sereno, per un attimo, poi, un sussurro sbiadito:
“I finocchi non sono graditi in questo posto, pensavo di essere stato chiaro.”

Mi si gelò il sangue nelle vene.
Non ebbi il coraggio di rispondere.

Delle mani pesanti mi bloccarono le braccia ancora indolenzite dal giorno prima, mi tirarono via dalla finestra ghiacciata e mi gettarono a terra. Caddi sulla spalla sinistra prima che quegli esseri spregevoli iniziassero a calciarmi nello  stomaco. Ad ogni calcio mi sembrava di sentire i miei organi ridursi in poltiglia, mescolarsi con i miei liquidi corporei e deformarsi irreparabilmente.

Ero in trappola, paralizzato, ma dovevo fare qualcosa o sarei morto ancora prima che la neve potesse imbiancare del tutto il suolo. Mi divincolai a più non posso, tentai di urlare per chiedere aiuto ma il silenzio della notte e della crudeltà aveva riempito i miei polmoni insanguinati.

Afferrai la gamba di uno di quei mostri e mi ci aggrappai con tutte le forze, lui la tirò via piantandomi una pedata ben assestata sul mento. Mi sembrava di poter vedere la mandibola aprirsi in due in corrispondenza dell’arco di cupido. Mi faceva male tutto il viso.

Gli altri si fermarono. Mollai la presa e iniziai a muovere le mani alla rinfusa, colpendoli e spingendoli a casaccio. Uno di loro cadde sul pavimento. Corsi, corsi come se fossi inseguito da un branco di lupi selvaggi; corsi, perché la mia vita in quel momento dipendeva solo da quanto veloce sarei riuscito a scappare.

Le mani mi tremavano e nello stomaco sentivo divincolarsi milioni di farfalle dalle ali spezzate che si scontravano e sanguinavano a fiotti. Raggiunsi la porta, sbattendoci contro e tentai di aprirla: era serrata.

Non c’era più speranza per me.

Mentre sentivo i passi pesanti di quegli esseri immondi avvicinarsi, tutto si spense per un secondo. Davanti ai miei occhi scintillò uno sguardo intenso, sottile; duo occhi di ghiaccio: Chris.

Iniziai a correre ancora, verso quei passi pesanti. Verso quella violenza. Dovevo raggiungere la mensa.

Corsi, corsi più veloce che potevo fin quando non intravidi nella penombra i lineamenti grezzi del viso di uno dei miei aguzzini. Mi scaraventai su di lui con tutta la forza che avevo, dandogli una spallata. Riuscii a passare oltre. Continuai a correre in preda al panico, spinto solo dalla forza della disperazione, fin quando non raggiunsi la mensa. La finestra difettosa era sempre aperta. Mi ci fiondai, saltando come un canguro e inciampai nel telaio della finestra, cadendo di faccia sulla neve. Sentii le ossa del naso e degli zigomi sbriciolarsi e in poco meno di un battito di ciglia, le labbra coprirsi di sangue bollente. Tentai di muovermi, di fuggire ancora ma i crampi allo stomaco e al petto me lo impedivano. Mi misi a quattro zampe, finché dietro di me sentii atterrare, con un tonfo attutito dalla neve morbida, dei grandi piedi pesanti.

Volli morire all'istante.

Mentre il mio cuore batteva sempre più forte e il viso mi bruciava tremendamente, dal naso sgocciolarono sul ghiaccio pallido, copiose gocce di sangue. Lo osservai per qualche attimo, ero sicuro che fosse di un deciso nero cangiante che sotto i raggi di luna risplendeva come petrolio. Rimasi a bocca aperta ad osservare lo strano colore del mio sangue, fino a quando una mano indelicata mi prese per la spalla già dolorante. Dopo avermi tirato su, prima ancora che potessi riconoscere il loro volto, arrivò un pugno e un altro ancora. Le orecchie mi fischiavano come una locomotiva e quando tentai di riaprire l'occhio destro, vidi solo uno spesso strato di bollente sangue nero.

Al terzo pugno, che mi colpì direttamente sulla tempia già aperta, caddi, come corpo morto, sulla neve.

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