XI - Bambini frustrati

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Passai in stanza.
Chris non era lì.

“Ehi, che t’è successo?” mi impalò uno dei due giovani in stanza. Un ragazzone dai capelli color porpora e le sopracciglia sottili, quasi invisibili, che gli rendevano il viso smagrito ancora più liscio e arrotondato.

“Non è niente” feci io cercando di non incontrare il suo sguardo.

L’altro soldato, meno giovane, dalla carnagione scura e i lineamenti affilati e mediterranei, mi osservava in silenzio, sdraiato sulla branda, a mezzo letto. Incontrai i suoi occhi neri come il carbone bruciato; così inquisitori, così pesanti.

Un brivido mi percorse la schiena, dal fondoschiena sino al collo.

Presi il giaccone e me lo misi addosso. Avevo altro a cui pensare in quel momento, avevo bisogno di un po’ d’aria fresca; non potevo accusarli dell’accaduto della sera prima ma allo stesso tempo non potevo fidarmi di nessuno. Decisi di seguire le regole del tenente Andrew, nonostante sentivo in fondo al cuore di potermi fidare di lui…

Non vedrò mai Taranto bella
non vedrò mai le betulle

Cos’era? Un altro ricordo? Un’altra poesia…

La testa mi faceva male da impazzire. Ogni volta la stessa sensazione, lo stesso dolore acuto e martellante. Mi sembrava di avere una punta di freccia attaccata alla fronte che oscillava come una spada di Damocle e, ogni tanto, mi graffiava il viso, mi squarciava la pelle, ogni volta che mi sembrava di ricordare qualcosa di importante. Come un sistema di tubature arrugginito, la mia mente, tremava non appena la più piccola quantità d'acqua vi passasse dentro. Un'acqua magica: l'acqua del ricordo.

Uscii dalla stanza e mi diressi verso il portone della caserma. Di mattina il gelo era ancora più penetrante.

Feci due passi, girando intorno all’edificio. Mille pensieri mi invadevano la testa.
La guerra, il tenente Andrew, l'addestramento.

Il tenente Andrew.

Perché era lì la sera del mio risveglio? Con la sua voce ruvida e il suo sguardo affilato, era in quella stanza con me e mi osservava, lo ricordo. Mi osservava come fossi un animale destinato al macello, con quel dispiacere disinteressato con cui si osserva un agnellino che sarà presto sacrificato a qualche divinità o credenza.

Forse mi ero solo sognato tutto.
No, non era possibile. Era proprio lui ne ero certo. Non riuscivo a darmi pace.

Continuai a passeggiare. Il freddo mi stava congelando i pensieri, ne avevo proprio bisogno. Le mura della caserma, ingrigite e stanche, osservavano annoiate i miei passi incerti.

Cosa avrei dovuto fare? Sarei potuto scappare, ma per andare dove? Non avevo una casa o un posto in cui fuggire, non mi restava niente della mia vita passata. Avevo solo quella divisa, quella branda, Chris… Andrew. Dovevo rimanere, “tenere un profilo basso", sopravvivere. Forse i ricordi sarebbero tornati al loro posto prima o poi, forse avrei capito cosa fare.

Decisi di rimanere, mi affidai completamente al tenente; in fondo lui mi aveva salvato e avevo dannatamente bisogno di un punto di riferimento in quel momento.

Mentre continuavo a vagare nel vuoto della mia mente, inciampai in una mattonella dissestata. Caddi a terra e istintivamente protrassi le braccia in avanti, per non sbattere il viso sul cemento ghiacciato. Il braccio non mi faceva più male, era magicamente guarito, come se non fosse successo niente. Non capivo. Tentai di rialzarmi e mi diressi verso l'ingresso dell'edificio toccando il braccio.

Entrai, l’aria calda dei caloriferi mi sbeffeggiò le guance, dandomi un piacevole abbraccio opprimente.

Alzai lo sguardo sull'orologio davanti alla porta. Erano le 8:30, ero già in ritardo. Andrew mi avrebbe ammazzato. Corsi per i corridoi della caserma, collezionando sguardi confusi e annoiati di soldati, e mi fiondai nel suo ufficio. Scaraventai il giaccone per terra e bussai.

La porta era aperta. Entrai.

Andrew era senza maglietta, si stava rivestendo. Indossava solo un paio di pantaloni militari leggermente larghi che si stingevano sul punto vita esaltando il suo addome intagliato nel legno. Con un sottile velo di peluria che gli decorava il petto, vestito solo di pelle d'oca, era lì in mezzo alla stanza, appena uscito dalla doccia, ad aspettarmi. Divenni viola, volli sprofondare per l’imbarazzo. Indossò una t-shirt verde attillatissima e mi guardò divertito.

“Se hai già il fiatone siamo messi male” mi derise.
Io abbassai lo sguardo e mi vergognai di chiedere scusa.
Mi passò accanto, “La prossima volta che arrivi in ritardo fai una brutta fine Luce. Andiamo.”

Passai il resto della mattinata in palestra. All'ora di pranzo non riuscivo a muovere un solo muscolo. Non avevo idea di come facessi ad essere ancora vivo. Nonostante avessi subito un’aggressione la notte prima, il mio personal trainer aveva trovato altri sfiancati ed efficaci esercizi da farmi fare.

“Te la sei cavata per essere un novellino” disse Andrew che mi osservava divertito, con le possenti braccia incrociate sul petto, guardandomi dall’alto della sua autorità.

Io, steso a terra, elemosinando aria, gli confessai che il braccio e la spalla non mi facevano più male.
Lui non sembrava sorpreso, cambiò discorso senza dare peso alla cosa. Eppure io continuavo a chiedermi se ci volesse così poco affinché una frattura guarisse...

Mi tese una mano. La strinsi forte, mi tirò su facendomi quasi volare; la sua stretta era così calda e avvolgente, per un istante, un breve e labile istante, sentì uno strano calore tiepido nel petto. Arrossì ancora, sembravo uno stupido, non riuscivo a dire una parola. Lui sembrava divertirsi; non capivo se gli facessi pena o se mi trovasse buffo. Evitai di pormi troppe domande.

“Vai a pranzare, pomeriggio seguirai l'esercitazione con gli altri, ci vediamo stasera.”

Mi liquidò in fretta senza tante moine, ma prima che se andasse, mentre parlava, lo osservai dritto negli occhi. Due bellissimi occhi blu che per la prima volta vidi quasi allegri. Forse vedermi sudare e saltare, mentre i cerotti mi si staccavano dal viso, lo aveva messo di buon umore. Come sempre, non mi porsi altre domande, ma notai per la prima volta che tra i suoi incisivi c’era un piccolo spazio. Lo trovai affascinante.

Entrai in mensa, ritirai le prelibatezze del giorno e mi misi seduto al mio tavolo: lo avevo ribattezzato “tavolo della solitudine”, il vento gelido che entrava dalla finestra odorava di tristezza e malinconia; mi sembrava un nome appropriato.

Mentre cercavo di capire cosa stavo mangiando, quel giorno ebbi visite. Chris si avvicinò con il suo vassoio e una camminata incerta e si sedette davanti a me con poca e sgraziata finezza.

“Mi hanno detto che ti hanno pestato” sembrava quasi preoccupato per me. In effetti, nonostante ormai quasi tutti i cerotti e le fasciature si fossero staccati, dovevo avere degli ematomi abbastanza evidenti.
Non sapevo cosa rispondere. Scossi la testa;
“Sono scivolato sulla neve, sono davvero sbadato.”
I suoi occhi di zaffiro mi fissavano in silenzio.
Ripresi a mangiare;
“tu come stai?” chiesi.
“Se qualcuno ti si avvicina, lo ammazzo.”
La sua voce era secca e strozzata. Mi vennero i brividi.
“Conosci il tenente Andrew… Volevo dire… il tenente Costas?” Cambiai argomento.
“La sua fama lo precede. Dicono che sia passato da soldato a tenente in meno di un mese. Ho sentito che ha ammazzato più di mille soldati nella battaglia di Malibù, con una pistola a proiettili. Quell’uomo ha le palle.”
Deglutì rumorosamente.
“E-e tu… sei già stato in guerra?” cambiai argomento ancora.
“Solo una volta. Alle Hawaii. Pochi qua dentro hanno visto la guerra. Sono dei cazzo di bambini frustrati.”
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi Chris mi chiese:
“Perché mi chiedi di Costas?”
“Ehm… ho iniziato un addestramento con lui…”
Lui rise appena, una risata trattenuta e strozzata;
“Buona fortuna, principessa.”

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