XLI - Alla vita

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Tornammo indietro. In macchina nessuno disse una parola. Il viaggio fu imbarazzante e arido. Quando arrivammo al campo ci separammo, salutai Chris sventolando la mano e, cercando di non farmi notare, Andrew con un bacio sulla guancia. Dopo quel racconto il suo viso sembrava disteso, più rilassato, ma negli strati più profondi della sua anima riuscivo a vedere quella paura e quella preoccupazione che fa mancare il respiro.

Avevo bisogno di staccare la spina, distaccarmi da tutto. Il bacio, Chris, la guerra, Andrew. Basta. Volevo dieci minuti in cui poter spegnere il cervello e fissare il vuoto, senza pormi altre domande, senza provare più sentimenti.

Tornai in infermeria, dove speravo di trovare un piccolo bozzolo di silenzio in cui riposare. Entrai, mi avvicinai al letto di Sasà: dormiva poggiato su un fianco. Decisi di non svegliarlo. Mi avviai verso il mio letto e da distante notai degli indumenti color verde militare appoggiati sul lenzuolo. Mi avvicinai incuriosito e trovai un biglietto: ero stato dimesso, non riscontriamo più problemi di salute che ci obblighino a mantenere i suoi parametri vitali sotto controllo - lessi.

Indossai la divisa lasciando cadere quella che indossavo - la divisa di Andrew - per terra. Presi lo zaino che avevo nascosto sotto il letto e vi riposi la pistola che nascondevo sotto i pantaloni. Mi sedetti sul ciglio del materasso e guardai fuori dalla finestra. Il sole sbiadito segnava l’ora di pranzo. Il mio stomaco prese a brontolare. Mi alzai, raccattai le mie poche cose e me ne andai cercando distratto la mensa di quel posto: stavo morendo di fame.

Dopo una decina di minuti a vagare tra le stanze dell’edificio, dopo tre rampe di scale che non portavano da nessuna parte e dopo aver chiesto indicazioni a chiunque, trovai la stanza dedicata alla mensa. Il soffitto era coperto di muffa e ragnatele e a confronto della mensa della caserma, sembrava una cella per deportati. I tavoli erano accalcati uno di fianco all’altro e i vassoi del cibo erano abbandonati su un lungo tavolone coperto di polvere.
Feci spallucce, presi un vassoio senza guardare cosa ci fosse dentro e mi voltai, cercando un posto libero dove sedermi. La stanza era affollata, l’odore forte e asfissiante ma il brusio dei soldati non mi arrivava alle orecchie. Non capivo se ci fosse silenzio o fosse la mia mente stordita da tutte quelle informazioni a bloccare ogni tipo di suono proveniente dall’esterno.

Iniziai a camminare verso un tavolo in fondo alla stanza con il vassoio in mano e per un attimo, quasi per sbaglio, mi tornò davanti al viso il ricordo delle labbra di Andrew. Divenni rosso, rallentai il passo. Scossi la testa e ripresi a camminare, mi guardai intorno: molti sguardi si posavano su di me accompagnati da mormorii e commenti che mi sfuggivano. In pochi secondi il silenzio che avvolgeva la mensa si tramutò in un bisbiglio di pettegolezzi e voci di corridoio. Cercai di non farci caso. Era già successo una volta. Non potevo isolarmi come facevo in caserma, dovevo solo continuare a camminare e non dare nell’occhio. Volevo solo mangiare qualcosa, fingere di avere una vita normale.

A pochi passi dal posto libero che avevo adocchiato, una figura impostata e massiccia mi si pose davanti. Era una mia vecchia conoscenza, quel soldato dal viso tondo e dall’espressione cagnesca con cui avevo discusso in stanza. Se avesse provato a dire qualcosa, in quel momento, gli avrei spaccato il vassoio di plastica che tenevo in mano in mezzo alla fronte. Mi fermai, strinsi forte i bordi del vassoio e lo fissai negli occhi. Col la coda dell’occhio vidi Aaron a qualche posto di distanza.

“Sei Luce, vero?” disse quel soldato dai modi scontrosi.

Feci di sì con la testa. Mi preparai a difendermi, questa volta non gli avrei permesso di farmi male.

Lui mi guardò per qualche secondo restando immobile davanti a me, poi si portò una mano alla fronte in segno di rispetto.
“Sei stato grande.”

Rimasi sorpreso da quelle parole. Avevamo attirato gli sguardi di tutti i soldati in mensa. Era sceso il silenzio, quindi un applauso che riempì la stanza. Mi guardai intorno: stavano applaudendo me, mi guardavano con occhi sorpresi e con espressioni serene. Posai lo sguardo su Aaron che mi osservava orgoglioso e riconoscente e mi faceva segno di sedermi al suo fianco.

“Grazie.” Tentai di dire. Mi sentivo in imbarazzo. “Non ho fatto niente di che…”
Aaron si alzò dalla sedia e urlò a gran voce.
“Ha salvato mio fratello!”

L’applauso scemò piano e alcuni sguardi dei soldati si posavano su di me gentili, fiduciosi. Mi sentivo fiero di me stesso, gonfio di coraggio. Riuscii a sentire alcuni commenti dei ragazzi seduti vicino ad Aaron.
“Sei grande!”
“Complimenti.”

Alcuni mi davano delle pacche sulla spalla, altri mi stringevano la mano.
Ero rosso in viso ma sorridevo. C’era il calore umano a scaldarmi il petto.

Il mio ex compagno di stanza si sedette vicino a me.

“Non abbiamo iniziato col piede giusto. Soldato Moretti.”

Fece per stringermi la mano.
Esitai, poi gliela strinsi.

“Clark mi ha raccontato cosa ti è successo quella sera. Anche se non condivido il tuo stile di vita non farei mai del male a un compagno.”

“Mi dispiace di averti accusato… io non ho idea di chi sia stato.”

Aaron si lanciò su di me appoggiando una mano sulla mia spalla.

“Acqua passata dai! Amici come prima. Brindiamo.”

Alzò il suo bicchiere d’acqua al cielo.
Facemmo lo stesso. Brindammo.

“Alla vita.” Pensai. Nessuno di loro sapeva che saremmo partiti per il fronte il giorno dopo.

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